Regia: Byung-gil Jung.
Sceneggiatura: Byeong-sik Jung, Byung-gil Jung.
Musiche: Ja Wan Koo.
Direttore della fotografia: Jung-hun Park.
Montaggio: Sun-mi Heo.
Produttore: Apeitda, Next Entertainment World.
Anno: 2017.
Durata: 129′.
Paese: Corea del Sud.
Interpreti e personaggi: Kim Ok-bin (Sook-hee), Shin Ha-hyun (Lee Joong-sang), Sung Joon (Jung Hyun-soo), Kim Seo-hyung (Kwon-sook), Jo Eun-ji (Kim Sun).
Il cinema della Corea del Sud ci ha riservato meno sorprese del solito in questo 2017, sicuramente non all’altezza dei fenomenali The Wailing, di Hong-jin Na, e The Handmaiden di Park Chan-wook, entrambi del 2016.
Tra i film coreani che più hanno catturato l’attenzione, c’è di sicuro The Villainess di Byung-gil Jung, presentato al Festival di Cannes 2017, tra le proiezioni di mezzanotte.
Jung, al suo secondo lungometraggio, firma una pellicola non del tutto riuscita, specialmente sul versante narrativo, ma interessante da alcuni punti di vista.
Sook-Hee (Kim Ok-Vin) è una killer. Cresciuta e addestrata in Yanbian, in Cina, nasconde la sua vera identità e parte per la Corea. Lì sogna di avere un tipo di vita diverso, ma viene in contatto con due uomini misteriosi: Joong-Sang (Shin Ha-Kyun) e Hyun-Soo (Sung Joon). (da Mymovies)
The Villainess si muove su due binari paralleli: da una parte il citazionismo e il collage di film cult, dall’altra il tentativo di girare scene d’azione spettacolari.
Per quanto riguarda il primo punto, le fonti a cui Jung attinge sono palesi. Si passa da Nikita di Besson, di cui viene ripresa l’idea di base, a Kill Bill di Tarantino, in particolare per quanto riguarda la sequenza animata dell’infanzia di O-Ren Ishii, qui riproposta in live-action, ma anche per quanto riguarda il personaggio della Sposa, molto vicina a Sook-Hee.
Come avevamo già visto con City of Violence, ci troviamo davanti a un citazionismo post-tarantiniano. Post perché, volendo ben vedere, si possono ritrovare, nel film di Jung, dei riferimenti a modelli classici e moderni (in gran parte gli stessi a cui ha sempre attinto il regista americano) ma si intuisce come questi siano stati filtrati attraverso lo sguardo di Tarantino. Per fare un esempio: il giapponese Lady Snowblood ha pesantemente influenzato Kill Bill che a sua volta ha influenzato questo The Villainess. Insomma non più la citazione post-moderna dei film del passato ma la citazione degli stessi film post-moderni.
I modelli di riferimento di Jung non sono però esclusivamente occidentali. La prima scena rievoca il celebre piano sequenza del combattimento nel corridoio di Old Boy, punto di riferimento imprescindibile per qualsiasi film di vendetta coreano dal 2003 a questa parte. Allo stesso tempo è impossibile non pensare a The Raid di Garreth Evans, nome che salta sempre fuori quando si parla di film d’azione, più o meno come il il film di Park Chan-wook con le storie di vendetta.
Jung si diverte a citare, o in certi casi a fare direttamente copia-incolla, cosa che, se all’inizio può divertire, dopo un po’ inizia a stancare, soprattutto perché al regista manca la capacità di rielaborare le fonti come fa, per esempio, Tarantino.
Il tutto è appesantito da una storia strappalacrime veramente scontata e prevedibile che, come quasi tutti i film del genere, gira intorno all’impossibile redenzione dei protagonisti e al sogno irrealizzabile di una vita normale, senza però riuscire a dare la giusta enfasi a questi temi.
Veniamo dunque a ciò che interessa veramente: le scene d’azione. Il regista non cerca di nascondere il fatto che The Villainess sia costruito tutto attorno alle sequenze action. Il film inizia con una carneficina di quasi dieci minuti, girata in (finto) piano sequenza in soggettiva. Più che le soggettive di De Palma però viene in mente il POV videoludico di Hardcore! e l’estetica dei video girati con la GoPro che si possono trovare su YouTube. Non tutti i combattimenti sono girati allo stesso modo, a volte torna ad essere utilizzato un montaggio più tradizionale e più visibile, più spesso però Jung opta per lunghissimi finti piani sequenza e soluzioni registiche mirate ad occultare il più possibile gli stacchi di montaggio, dando un’impressione di dinamicità e continuità dell’azione. Meritevoli d’attenzione sono almeno tre scene: il combattimento iniziale, quello in moto e quello finale.
Insomma, tecnicamente Jung dimostra di saperci fare, anche se l’uso della soggettiva è fin troppo eccessivo, così come la caoticità di alcune scene che, nonostante l’azione sia sempre comprensibile, risultano un po’ troppo movimentate.
Uno sfoggio di tecnica e di virtuosismi che però non riesce a raggiungere gli apici di The Raid, nettamente superiore, sia dl punto di vista coreografico, che della violenza brutale messa in scena. Non che manchi il sangue in The Villainess, anzi, scorre a litri, ma è la violenza tarantiniana di Kill Bill, con fontane di sangue ai limiti della parodia, quindi colpisce meno.
Per concludere, non si può evitare di paragonare The Villainess a Atomica Bionda di David Leitch, entrambi action con protagoniste femminili, anche se lo sguardo sul corpo femminile è completamente differente (approfondirò l’argomento quando tratterò Atomica Bionda), entrambi interessati alla continuità dell’azione, con più attenzione verso la regia e i movimenti di macchina che il montaggio.
Solitamente, in un confronto tra occidente e oriente, quest’ultimo esce sempre vincitore per quanto concerne i film d’azione. In questo 2017 la situazione sembra essersi ribaltata con film quali John Wick 2, Atomica Bionda e Brawl in Cell Block 99. Un ritorno dell’action americano che mette alla prova quello orientale. Probabilmente bisognerò aspettare Gareth Evans con The Raid 3 per alzare nuovamente il livello.
Scritto da: Tomàs Avila.