Recensione Kimi di Steven Soderbergh

In Cinema, Recensioni Film, Tomàs Avila by Tomas AvilaLeave a Comment

Condividi:
Share

Era inevitabile che il trauma del Covid-19, dei due anni di pandemia, con tutto ciò che ne è conseguito, irrompesse anche nel cinema.

Kimi non è certo il primo film figlio degli anni della pandemia, si pensi ad esempio ai casi di Songbird, prodotto da Michael Bay, o a Zeros and Ones di Abel Ferrara, o ancora, restando in Italia, a Lockdown all’italiana di Enrico Vanzina.

Tre casi, a essere onesti particolarmente infelici, di prodotti in cui il tema della pandemia è fortemente presente e centrale.

Vi sono poi casi come quello di Host, screen-movie britannico girato durante il lockdown, totalmente su Zoom, sulla scia di Unfriended e film del genere.

Come è stato per un altro evento traumatico che si è impresso nella memoria collettiva globale (seppure, per ragioni geografiche, maggiormente in quella degli americani), l’attentato al World Trade Center dell’11 settembre 2001, il cinema sarà uno dei modi in cui si cercherà di rielaborare il trauma della pandemia.

Sul cinema post 11 settembre si possono leggere innumerevoli studi e ricerche, per quanto riguarda l’impatto che il covid avrà sul cinema, tralasciando l’impatto che ha già avuto sull’industria cinematografica, bisognerà ancora aspettare del tempo perché sono ancora poche le opere che riflettono su questi due anni.

Kimi è forse il film che maggiormente affonda le radici nella società post-pandemica, concentrandosi più che altro sugli effetti collaterali del virus.

Mentre in Songbird il virus è centrale e in Zeros and Ones, girato in Italia durante il lockdown, la cosa che rimane maggiormente impressa è la Roma del lockdown, con le sue strade vuote, da città fantasma, Soderbergh si concentra sul periodo post-pandemia.

Il mondo si sta riprendendo dal covid, le strade tornano a essere popolate, certo, tutti indossano l’ormai irrinunciabile mascherina ma siamo ben lontani dalla Roma desolata di Ferrara.

Il mondo sta ripartendo ma non tutti riescono a tornare alla normalità, come Angela, la protagonista, che già prima del Covid soffriva di agorafobia e di attacchi d’ansia, a causa di una violenza subita, disturbo che la pandemia non ha fatto altro che esacerbare, portandola al punto di non riuscire più a uscire da casa.

Angela lavora per una compagnia informatica che produce, tra le altre cose, uno smart speaker dotato di assistente vocale, sulla scia di Alexa e Siri, chiamata Kimi.

La peculiarità di Kimi è che le registrazioni effettuate dai suoi microfoni vengono ascoltate da degli operatori umani che, in caso l’intelligenza artificiale non riesca a comprendere le richieste degli utenti, intervengono direttamente, “insegnando” a Kimi il significato delle cose che non capisce.

Angela è uno degli operatori che si occupano di ascoltare le richieste che Kimi non ha compreso.

La sua impossibilità di uscire di casa è diventata una condizione alla quale ormai si è tristemente rassegnata, fino a quando non ascolta una registrazione di Kimi in cui le sembra di sentire un omicidio.

Da qui prende il via la storia, che si sviluppa in un intrigo tra lo spionistico e il thriller paranoide.

Va detto fin da subito, Kimi, tra i film citati precedentemente, è quello che riesce meglio a intercettare i nostri tempi, a comprenderli e trasporli cinematograficamente. Ciò non vuol dire che sia un film memorabile ma probabilmente è il primo che riesce a dare una forma compiuta alla materia ed è curioso che a farlo sia stato lo stesso Soderbergh al quale si deve Contagion, film in un certo senso premonitore, che ha vissuto una seconda vita con l’avvento della pandemia.

L’agorafobia di Angela è un problema che in molti hanno vissuto, in seguito al periodo del lockdown, insieme a una lista sconfinata di altri disturbi psicologici, la cui reale entità, probabilmente, non è ancora stata pienamente compresa.

Soderbergh, da grande cinefilo, non si lascia scappare l’occasione per rievocare uno dei capolavori di Hitchcock, La finestra sul cortile, aggiornando al 2022 i motivi della costrizione del protagonista all’interno delle quattro mura della sua casa.

Il film parte sembrando voler prendere quella direzione, con un continuo stare alla finestra, osservare quello che succede per strada o nelle case dei vicini.

In seguito, si sposta più dalle parti de La conversazione e Blow Out, quando il senso della vista cede il passo all’udito e al tentativo di decifrare un segnale audio molto confuso.

Se però il film di De Palma era un grande omaggio all’arte del sonoro analogico, Kimi è totalmente permeato dalle tecnologie digitali.

È un continuo susseguirsi di schermi: il computer di lavoro, il cellulare, il computer personale.

L’onnipresenza del digitale è amplificata dalla condizione di Angela, costretta a fare ogni cosa al computer: visite mediche, chiamate con i genitori, assistenza per i lavori in casa.

La realtà che vive Angela è totalmente mediata dagli schermi digitali, oppure dalle finestre che, come aveva già intuito Hitchcock, ci pongono in una condizione di spettatore simile a quella in cui ci pone il cinema, quasi come fossero anch’esse degli schermi.

È interessante notare che, non molto tempo fa, il capolavoro hitchcockiano è stato ripreso da La donna alla finestra, altro film in cui una donna è costretta tra le mura di casa a causa dell’agorafobia.

In questo caso però, il covid ha impattato la produzione del film stesso, facendone slittare la data d’uscita, quindi non si può rintracciare un’intenzione, da parte del regista, di rifarsi ai tempi del covid.

Tornando a Kimi, nonostante un inizio promettente, gli interessanti presupposti vengono abbandonati nella seconda parte del film, in cui la storia si sviluppa all’insegna della banalità, arrivando al più scontato dei finali possibile, in cui l’avventura che la protagonista è costretta a vivere la porterà a superare la sua agorafobia, come una sorta di terapia d’urto.

Soderbergh dunque riesce a intercettare, molto furbescamente, i nostri tempi, realizzando un prodotto in grado di rivolgersi alla contemporaneità ma sempre in modo molto freddo e calcolato.

Ciò che manca completamente è un reale disagio, una sofferenza palpabile e di conseguenza il film scorre senza infamia né lode, facendosi dimenticare in fretta.

Insomma, deve ancora uscire il film in grado di elaborare in modo convincente il trauma della pandemia, l’opera che riesca a diventare l’icona cinematografica degli ultimi due anni.

Scritto da: Tomàs Daniel Avila Visintin