Recensione Malignant, di James Wan

In Cinema, Recensioni brevi, Recensioni Film, Tomàs Avila by Tomas AvilaLeave a Comment

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Nell’ultimo articolo, parlando de La notte del giudizio, una delle saghe horror più importanti degli ultimi anni, facevo riferimento a Saw. Dopo due mesi torniamo a parlare di horror, con la nuova fatica di James Wan.

Ogni volta che James Wan torna al suo genere prediletto, l’horror, si riaccende l’interesse verso un regista che ha saputo spaziare tra vari generi e contesti produttivi, dagli horror low budget degli esordi, ai blockbuster multimilionari come Fast & Furious 7 e Aquaman, passando per quelli che sono dei veri e proprii blockbuster-horror, delle saghe come Saw e L’evocazione, macchine da soldi come poche altre produzioni horror post 2000.

Saghe che, per altro, non hanno portato a niente di buono. Da una parte alla deriva ultra-gore del torture-porn americano di metà 2000, incentrato essenzialmente sulla violenza estrema delle torture, fonte di intrattenimento sdoganata in ambito mainstream a seguito dei casi di Abu Ghraib e simili, che hanno alzato l’asticella di sopportazione della violenza, in un certo senso normalizzandola e legittimandola anche in prodotti per il grande pubblico e non più per nicchie di fanatici dell’horror estremo.

Dall’altra, un approccio e un filone completamente diverso, quello dell’horror demoniaco figlio dell’Esorcista e The Amityville Horror, fatto di jump scares, possessioni di vario tipo e oggetti maledetti.

In entrambi i casi, i film che hanno dato il via alle saghe, quelli di James Wan, erano prodotti di ottimo livello, chiaramente riconducibili a un autore con una visione e dei punti di riferimento ben precisi.

Il problema, ovviamente, è arrivato con la serializzazione e l’espansione di questi universi narrativi, come avviene quasi sempre.

Fatto sta che è a Wan che si devono in gran parte le sorti dell’horror degli ultimi quindici anni e specialmente lo stato attuale, ancora dominato da horror demoniaci infarciti di jump scares e sempre più privi di inventiva.

Nel grande calderone dell’horror contemporaneo però, negli ultimi anni, si è vista la rinascita di un cinema più impegnato (o forse non era mai scomparso del tutto?), figlio soprattutto del new horror americano anni ’70.

Si possono trovare opere completamente diverse all’interno di questo gruppo, da quelli più interessati ad affrontare le paure del presente, tematiche sociali come la discriminazione raziale, a quelli incentrati su tematiche esistenziali o psicologiche.

Tra i primi abbiamo film come quelli di Jordan Peele, Get Out e Us, (di Peele parleremo meglio nel prossimo articolo, dedicato al remake/sequel di Candyman) o il già citato ultimo episodio de La notte del giudizio. Tra i secondi horror come Babadook, quelli di Ari Aster e quelli di Robert Eggers.

Con esiti molto diversi tra loro, questi registi cercano di proporre un’alternativa all’horror che va per la maggiore, riuscendo a volte a ottenere anche ottimi riscontri da parte del pubblico, come nel caso di Jordan Peele.

In questo panorama si inserisce con forza James Wan con Malignant, un film che propone qualcosa di diverso sia dai classici film di possessioni che dall’approccio più autoriale dei registi sopra citati.

Malignant è un’opera difficilmente inquadrabile, in continua mutazione, fortemente disomogenea e squilibrata, cosa che, se da una parte può essere vista come un difetto, dall’altra la rende più affascinante ed estremamente originale.

James Wan è chiaramente un grande fan del cinema horror, prima ancora che essere un regista di genere. Ama l’horror di “serie A” ma anche quello di “serie B”, senza avere la necessità di doversi nascondere dietro all’etichetta, ormai anacronistica, del cinema d’autore.

Realizza così un b-movie, come ormai non si fanno più e come invece se ne vedevano in gran quantità tra gli anni ’70 e ’80, in cui abbondavano film low budget, spesso di dubbia qualità, ma ricchi di inventiva e vitalità. La differenza, in questo caso, è che Wan ha anche un budget non esiguo.

Il risultato è una scheggia impazzita nel panorama horror contemporaneo, un film che ingrana col passare del tempo ed esplode nell’ultimo terzo, una delle cose più folli viste in tempi recenti.

Inizialmente il regista sembra voler far credere allo spettatore di essere davanti a un altro film di fantasmi/possessioni, con chiari riferimenti all’horror nipponico.

Poi la storia si allontana dal paranormale, trasformandosi in una sorta di rivisitazione del giallo all’italiana di Bava, Argento (e molti altri), con particolare riguardo nei confronti del cinema di Argento, dal quale riprende soprattutto l’ossessione per il tema del voyeurismo.

La protagonista è costretta a guardare gli efferati omicidi dell’assassino, senza potersi muovere, in una sorta di paralisi. Il rimando più ovvio è quello a Opera di Argento, in cui la protagonista si trovava in una situazione analoga, con tanto di aghi attaccati alle palpebre, per impedirle di chiudere gli occhi.

Non si fermano qui le influenze del giallo, si pensi ad esempio ai guanti neri classici degli assassini argentiani (e prima ancora di Bava).

Non passa inosservato neanche il riferimento allo slasher, il killer si fabbrica un’arma bianca per uccidere le sue vittime e spesso sembra di vedere un film del filone che ha spopolato dagli anni ’80 agli anni ’90.

L'ossessione per il voyeurismo

L'ossessione per il voyeurismo

Armi bianche e guanti dell'assassino

Quando sembra ormai chiara la direzione presa, Wan sorprende ancora cambiando le carte in tavola, anche se, come spiegherò meglio a breve, si tratta di una svolta già intuibile dai titoli di testa.

È nell’ultimo terzo che Malignant rivela la sua reale natura, quella più sanguigna e carnale, andando a sconfinare nel territorio del body horror, in un delirio splatter che difficilmente si può dimenticare.

In tutto ciò però, Wan non cerca di dare profondità all’opera, il body horror non è quello di Cronenberg, anche se sono presenti rimandi anche al suo cinema, dagli horror anni ’70 a Inseparabili.

Wan sembra guardare più al cinema di Gordon e Yuzna, al b-movie puro, senza però avere neanche l’intenzione di sollevare un qualche tipo di critica sociale.

Se proprio bisogna paragonarlo a qualcuno, Wan sembra più vicino al citazionismo De Palmiano, privato degli intenti intellettuali di De Palma, che cercava rifare il cinema di Hitchcock mostrando e raccontando ciò che il maestro inglese non aveva potuto mostrare e raccontare ai suoi tempi.

E non a caso è difficile, guardando Malignant, non pensare a Le due sorelle di De Palma, uno dei film più hitchcockiani del regista, da cui Wan sembra riprendere i titoli di testa con le foto di feti che già alludono alla soluzione del film, aggiungendo un dettaglio in più, quello dei nomi del cast le cui lettere si sdoppiano, appunto come gemelli nati da uno stesso ovulo.

Wan si diverte a citare tutti i registi che lo hanno formato, rielaborando le influenze e dando vita a un film che è una ventata di freschezza in un panorama horror sempre più piatto.

Non manca neanche l’influenza dei blockbuster action del regista, soprattutto nell’ultima parte del film, in cui si ha l’ennesima virata, questa volta verso l’action violento, con delle sequenze poco horror e molto più spettacolari.

Sempre sul limite tra trash e weird, Wan firma uno dei suoi film più riusciti, un’opera che racchiude tutta la sua idea di horror, che può non convincere per gli eccessi e la disomogeneità ma che sicuramente è uno dei film horror più originali visti negli ultimi anni.

Paralisi e voyeurismo

L'immancabile split diopter shot

Presenze nipponiche

Scritto da: Tomàs Avila.