The Purge: una saga americana – La notte del giudizio per sempre

In Analisi film, Cinema, In Programmazione, The Purge: una saga americana, Tomàs Avila by Tomas AvilaLeave a Comment

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Indice:

  1. Introduzione
  2. Il successo della saga
  3. Un film in ritardo di un anno

Introduzione

Finalmente, a tre anni di distanza dallo scorso capitolo, La prima notte del giudizio, riesco a dire scrivere qualche riga riguardo al quinto, e forse ultimo, film della saga de La notte del giudizio: La notte del giudizio per sempre.

Il modello è sempre lo stesso, come spesso capita con le infinite saghe horror che hanno fatto la storia del genere, quindi sappiamo perfettamente cosa aspettarci: ci vengono presentati brevemente i personaggi, Juan e Adela, una coppia di immigrati clandestini messicani in Texas, e la famiglia Tucker, dei cowboy americani arricchitisi gestendo un ranch.

Juan lavora per i Tucker, mentre Adela lavora nella cucina di un ristorante. I due messicani, scappati dal loro paese, cercano di inseguire il loro american dream e di rifarsi una vita ma, essendo appena arrivati in America, non hanno ancora vissuto una delle purghe.

Juan a lavoro ha un bel rapporto con Caleb Tucker, il proprietario del ranch, nonché capofamiglia, ben disposto nei confronti di chiunque dimostri di essere un bravo cowboy. Più conflittuale invece è il rapporto con Dylan Tucker, figlio di Caleb, che non ha in simpatia i messicani.

Presentatici i personaggi, si entra nel vivo, arriva il momento della purga annuale, il sangue scorre come sempre ma finisce tutto troppo in fretta, dopo pochi minuti.

Ed è qui che il film vira rispetto al classico modello della saga, perché questa volta i crimini non sembrano cessare allo scadere della purga. Un movimento partito dal basso, di pazzi esaltati dalla violenza, per lo più suprematisti, tentano di sovvertire il nuovo ordine imposto dai Nuovi Padri Fondatori ed è da questo presupposto che prende il via il film.

Il successo della saga

Chi segue Schegge di Vetro da qualche anno, sa che abbiamo sempre considerato La notte del giudizio una delle saghe cinematografiche più interessanti tra quelle post 2000, nonché, ormai, una delle più iconiche.

Da cosa lo si capisce? Come al solito dal peso che ha avuto nella cultura popolare, tra citazioni e parodie, basti citare la puntata di Rick and Morty dedicata proprio a La notte del giudizio.

Abbiamo trattato approfonditamente tutti i capitoli della saga e i motivi del suo successo e potete qui il link allo speciale.

Di certo, l’idea di base è efficace, per quanto semplice, si tratta del resto di un prodotto della Blumhouse, che raramente sbaglia un colpo a livello produttivo.

Ci sono poi le maschere, anch’esse divenute iconiche, al livello del manichino di Saw, per citare un’altra delle saghe horror più importanti dei 2000, non a caso ritornata anch’essa con un nuovo capitolo quest’anno.

Nonostante tutto però, il vero motivo del successo de La notte del giudizio è da individuare nell’abilità di James DeMonaco, creatore della saga e regista dei primi tre film, di saper comprendere la società americana contemporanea e di renderla l’elemento centrale di questi film. Spesso in modo rozzo, certo. Senza sottigliezze, di sicuro. Resta il fatto che La notte del giudizio è sempre stata una saga fortemente politica, fin dal primo capitolo. La componente politica è andata crescendo, capitolo dopo capitolo, portando la saga ad evolversi e cambiare, in parallelo ai cambiamenti della società americana.

Niente di nuovo si potrebbe dire, pensando alle perle che ci ha regalato il genere horror americano tra gli anni ’70 e ’80. Erano però anni diversi e i maestri di quel cinema horror fortemente politicizzato, non hanno fatto una bella fine, quasi tutti ignorati dai produttori, che non ci hanno più visto un potenziale guadagno (si pensi a Romero, Hooper, Carpenter e via dicendo).

James DeMonaco ha avuto l’intuizione di proporre un prodotto vecchio stile in un panorama horror sempre più monotono, dominato dagli horror paranormali, i mockumentary sempre più a ribasso e la deriva gore del torture porn alla Saw e Hostel.

La componente politica e distopica insomma è la principale ragione del successo della saga e, come dicevamo, ha progressivamente acquistato importanza, capitolo dopo capitolo, fino ad arrivare a La prima notte del giudizio, prequel della saga, uscito nel 2018, in un momento in cui la questione afroamericana era al centro dei riflettori, specialmente a Hollywood. Ricordiamo che nel 2017 l’oscar al miglior film venne assegnato a Moonlight.

Cercando di cavalcare questo rinnovato interesse verso la comunità afroamericana, DeMonaco, per la prima volta presente solo in veste di produttore e non di regista, aveva affidato la regia a un giovane regista afroamericano, Gerard McMurray. Il film era ambientato a Staten Island, in particolare in quartiere popolare a prevalenza afroamericana. I protagonisti erano tutti neri, la colonna sonora dominata dall’hip hop. Insomma era perfettamente inquadrabile nel filone dei film di genere black degli ultimi anni, una sorta di ritorno della blaxploitation degli anni ’70, portato avanti da registi come Jordan Peele, Spike Lee e molti altri.

Va ricordato poi che nel 2018 si era già in piena presidenza Trump, dopo la vittoria alle elezioni del 2016.
Se torniamo al terzo capitolo, La notte del giudizio: Election Year, uscito nel 2016, si può notare che il finale era abbastanza positivo, concludendosi con la vittoria di una senatrice democratica, contro al metodo della purga.
Evidentemente la realtà si è dimostrata meno lieta della finzione cinematografica e i toni con cui si chiudeva La prima notte del giudizio, in piena era Trump, erano sì speranzosi ma molto più cupi, con lo scambio di battute tra i due protagonisti “E ora cosa facciamo?” “Ora… si combatte.”, alludendo al fatto che la lotta di classe sarebbe andata avanti anche dopo la notte della purga.

Un film in ritardo di un anno

Arriviamo così a La notte del giudizio per sempre. DeMonaco ripropone la formula del capitolo precedente: film incentrato su una minoranza, questa volta quella messicana, affidando la regia a un giovane regista messicano-statunitense.

La prima cosa che salta all’occhio è il fatto, a differenza dei capitoli precedenti, di non essere al passo coi tempi, di essere leggermente indietro. È chiaramente un film anti-Trump, non a caso sono i messicani a farla da padrone e non a caso viene ribaltata la direzione del flusso migratorio bersaglio delle politiche di Trump.

Attualmente però Trump non è riuscito a ottenere il secondo mandato, la palla è passata nuovamente ai democratici, quindi il film non risulta del tutto attuale, colpa ovviamente del Covid. Infatti La notte del giudizio per sempre sarebbe dovuto uscire a luglio 2020, prima delle elezioni presidenziali del 2020, quindi ancora durante la presidenza di Trump.

Così non è stato, col risultato di risultare leggermente in ritardo sui tempi, tuttavia cercheremo di analizzarlo tenendo conto del periodo in cui è stato realizzato.

Come stavamo dicendo, il film è chiaramente schierato contro Trump e le sue politiche discriminatorie e anti-migratorie, concentrandosi proprio sullo scontro tra messicani e statunitensi suprematisti che iniziano a dare la caccia a tutti gli immigrati.

Viene estremizzata (ma neanche troppo) quell’America razzista fatta di redneck, fanatici delle armi e guerrafondai. In questo senso è emblematica la scena nel furgone della polizia con il neonazista che dirige l’orchestra delle sparatorie che stanno avvenendo all’esterno, elogiandole come “vera musica americana”.

Il portare all’estremo certi atteggiamenti, quasi al parossismo, fa sì che il tono del film non sia né troppo fastidiosamente pretenzioso, né totalmente disimpegnato, come del resto era per gli altri episodi della saga, anche se, in questo caso, il risultato è migliore rispetto al film precedente.

Molto interessanti sono poi i continui cambi di genere, si parte dall’home invasion, che ricorda il primo episodio della saga, per poi passare alle atmosfere carpenteriane alla 1997 Fuga da New York, influenza fondamentale per DeMonaco nel secondo e nel terzo film della saga, arrivando nell’ultima parte al western, con echi di Mad Max ma anche del western classico, con tanto di nativi americani.

Questo percorso attraverso i generi va in parallelo a un percorso geografico, quello verso il Messico, che ribalta intelligentemente l’immaginario dei clandestini Messicani in fuga verso gli Stati Uniti, ipotizzando un futuro in cui la cosa più probabile sarà quella contraria, se non verranno imposti dei limiti alla violenza autodistruttiva che devasta il paese.

Il viaggio si conclude con l’arrivo dei cowboy buoni in Messico, grazie all’aiuto dei nativi americani, dopo essere sfuggiti alla parte impazzita degli Stati Uniti.

Anche a livello simbolico, viene ripreso e capovolto in modo talmente evidente da sembrare quasi una parodia, uno dei topoi del cinema americano, la bandiera a stelle e strisce che sventola fieramente riempiendo l’inquadratura, rimpiazzata qui da una bandiera messicana.

Il tutto fa pensare, oltre che a un attacco alle politiche di Trump, a un tentativo di espiare le colpe di un paese, che si porta ancora sulle spalle il fardello dello sterminio degli indigeni americani, tema che il cinema hollywoodiano ha spesso affrontato, nei modi più disparati.

Non è un caso che nella famiglia americana protagonista, una famiglia di cowboy texani progressisti, vi sia Dylan, che, a differenza di suo padre, non nasconde un certo astio nei confronti dei messicani.
Il film può essere visto come il suo percorso di accettazione del diverso, descritto in modo rozzo e senza troppe pretese, come ci si aspetta da La notte del giudizio.

Dylan passa da un aperto astio verso i messicani, a un progressivo rispetto che travalica le differenze culturali, messe in evidenza in un dialogo tra Dylan e Juan. Sono due culture diverse, a tratti incompatibili, ma si incontrano nella figura del cowboy, figura virile per eccellenza nell’immaginario americano.

Ed è proprio il personaggio di Dylan a rendere più ambiguo il quadro complessivo che, in assenza del suo personaggio, sarebbe facilmente inquadrabile in quella parte di Hollywood (molto ampia) schierata dichiaratamente e inequivocabilmente dalla parte dei democratici.

Dylan può ricordare alcuni dei personaggi del Clint Eastwood post 2000, sempre ricordando che si parla de La notte del giudizio, quindi senza la profondità dello sguardo di Eastwood.

O ancora, può far venire in mente il punto di vista di Michael Bay in Pain and Gain e 13 Hours, ovvero lo sguardo di un repubblicano, fieramente repubblicano, ma disilluso e soprattutto deluso dal suo paese, pertanto estremamente critico nei suoi confronti.

Anche da questo punto di vista, questo quinto capitolo della saga, risulta più interessante del precedente, perché più ambiguo, meno netto nella divisione tra buoni e cattivi, per quanto sempre con lo stile di La notte del giudizio che, ancora una volta, sicuramente non pretende di affrontare in modo approfondito e sofisticato queste tematiche.

Nel complesso La notte del giudizio per sempre convince e soprattutto intrattiene, non annoiando mai e regalando qualche scena che rimane impressa.

Resta da chiedersi se la saga andrà avanti o se si tratterà veramente dell’ultimo capitolo. Lo scopriremo presto e come al solito la risposta dipenderà soprattutto da come andrà il film al botteghino.

Qui potete trovare anche la video recensione:

Scritto da: Tomàs Daniel Avila Visintin.