Indice:
1 –Introduzione
2 –Periodo olandese
3 –Il cinema Reaganiano
4 –Periodo americano
4.1 –L’amore e il sangue
4.2 –Robocop
4.3 –Atto di forza
4.4 –Basic Instinct
4.5 –Showgirls
4.6 –Starship Troopers
4.7 –L’uomo senza ombra
Regia: Paul Verhoeven.
Soggetto: “Fanteria dello spazio” di Robert A. Heinlein.
Sceneggiatura: Edward Neumeier.
Colonna sonora: Basil Poledouris.
Direttore della fotografia: Jost Vacano.
Montaggio: Mark Goldblatt, Caroline Ross.
Produttore: TriStar Pictures, Touchstone Pictures, Big Bug Pictures, Digital Image Associates.
Anno: 1997.
Durata: 129′.
Paese: USA.
Interpreti e personaggi: Casper Van Dien (Johnny Rico), Dina Meyer (Dizzy Flores), Denise Richards (Carmen Ibanez), Jake Busey (Ace Levy), Neil Patrick Harris (Carl Jenkins).
Nonostante il flop di Showgirls, la Touchstone Pictures e la Jon Davison Productions decisero di credere ancora in Verhoeven e di fargli realizzare l’adattamento del romanzo del 1959 Fanteria dello spazio, di Robert A. Heinlein, insieme allo sceneggiatore Edward Neumeier, già collaboratore del regista in Robocop.
In un futuro non troppo lontano, il nostro pianeta combatterà una terribile battaglia contro una razza aliena di insetti giganti. Ma facciamo un passo indietro, quando la guerra non era ancora scoppiata e Johnny Rico, terminato il liceo, decideva di arruolarsi nella fanteria dello spazio. Proprio alla vigilia dell’invasione degli astromostri… (da Filmtv)
Con Starship Troopers Verhoeven realizza il migliore dei suoi film hollywoodiani, una pura follia e un suicidio commerciale che, infatti, non riscosse grande successo in patria: dei 100 milioni di dollari di budget ne vennero recuperati solo 60.
In un periodo cinematografico in cui vanno per la maggiore i Cinecomic e le saghe alla Star Wars e Fast and furious, quindi blockbuster dai budget multimilionari, si sente la mancanza di un film come Starship Troopers, un blockbuster sci-fi che scardina i canoni hollywoodiani portandone le caratteristiche tipiche all’estremo fino al parossismo.
Dopo aver rivisitato il musical, Verhoeven riprende un altro dei generi classici hollywoodiani, il genere americano per eccellenza che meglio di tutti gli altri ha saputo rispecchiare i cambiamenti politici e sociali degli Stati Uniti: il western. Sì perché Starhip Troopers non è nient’altro che un western ambientato nello spazio, in un pianeta deserto che ricorda la Monument Vally di John Ford, in cui al posto di John Wayne c’è un esercito di soldati idioti e pompati (su questo ritorneremo dopo) e al posto degli indiani uno sciame di insetti mastodontici e cattivissimi.
Avremo quindi tutto un repertorio di situazioni tipiche del western: le imboscate tese dagli indiani/insetti, l’assalto degli indiani/insetti al fortino e via dicendo.
Già questo basterebbe per rendere il film interessante ma dietro alla guerra tra uomini e insetti si nasconde una feroce critica all’America, con la solita ironia grottesca e l’umorismo nero del regista, tratto stilistico qui più che mai presente.
Starship Troopers è in realtà un anti-blockbuster, un film che decostruisce il modello hollywoodiano commerciale dall’interno, intento nobile e coraggioso, considerato soprattutto il budget decisamente elevato che solitamente tende a non far correre rischi.
Citando Martin Scorsese: “Quando sei un regista indipendente, puoi prendere la macchina da presa, fare un film, e dire quello che hai voglia di dire. Basta avere la testardaggine e il coraggio necessari. Ma ottenere lo stesso risultato quando si lavora in un sistema e con le costrizioni imposte dall’esterno e uscirne, per così dire, vittoriosi mi sembra più interessante”[1].
È esattamente quello che hanno fatto Verhoeven e Neumeier, uscendone però vittoriosi solo in parte.
Ma in cosa sta di preciso la decostruzione del blockbuster?
Geoff King in “La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Settanta all’era del Blockbuster” fa un’analisi approfondita della caratteristiche tipiche del blockbuster, una categoria di film che cerca il pubblico di massa, più vasto possibile. Questo perché, avendo costi molto elevati, deve garantire dei ritorni economici adeguati. Sono diverse le caratteristiche, sicuramente la più importante è che il blockbuster cerca di interessare non solo una tipologia di pubblico ma tutte le tipologie, andando a intercettarle grazie ai vari elementi che possono attrarlo. Star di punta, conosciute dal pubblico più generalista, l’inserimento di canzoni di successo del momento, l’adattamento di opere preesistenti (romanzi, videogiochi, remake di altri film, fumetti ecc), effetti speciali spettacolari, scene di azione, esplosioni e una retorica tendenzialmente buonista, adatta a tutta la famiglia e promotrice dei valori cardine della società americana.
Starship Troopers è tratto da un romanzo di successo, è colmo di scene di azione e di effetti speciali, per i tempi di ottima fattura, tanto da meritarsi la nomination agli Oscar, ma per il resto si discosta dai canoni del blockbuster.
Per prima cosa si tratta di un film violentissimo, si può dire gore, tra decapitazioni e corpi smembrati che farebbero impallidire qualsiasi slasher, decisamente inadatto a un pubblico di massa.
In secondo luogo mancano le grandi star, la gran parte degli attori principali veniva dalla televisione, in particolare da Beverly Hills 90210, scelta non casuale, come vedremo.
Infine, cosa più importante, la retorica del blockbuster non troppo celatamente propagandistico, alla Top Gun per intendersi, viene portata talmente all’estremo da farne un’efficace e spietata parodia.
È qui che ritroviamo la poetica di Verhoeven e la sua critica alla società americana fatta sempre partendo dai corpi degli attori. Se in Showgirls erano al centro i corpi siliconati delle ballerine, donne-oggetto, qui prevalgono i corpi steroidati e pompati dei soldati, tutti muscoli e niente cervello, esasperazione dei protagonisti superomistici dei film d’azione degli anni ’80 e ’90, ancora più che in Robocop.
Non è un caso che gli attori siano stati presi in gran parte da Beverly Hills 90210, serie di culto incentrata sugli adolescenti dell’alta borghesia losangelina. A Verhoeven non interessano, in questo caso, le doti recitative degli attori ma la loro fisicità: mascelle squadrate, in pieno stile americano, braccia che esplodono e via dicendo.
È proprio partendo dai corpi che il regista critica un’America guerrafondaia e becera, portata all’esasperazione, pochi anni dopo la prima guerra del Golfo e pochi anni prima dell’11 settembre e della guerra in Iraq. Un’America fascista in cui si incentiva in ogni modo ad arruolarsi nella fanteria e diventare degli eroi, in cui si disincentiva il pensiero (i veri duri sono quelli della fanteria, non gli scienziati), un’America in cui si danno letteralmente le armi in braccio ai bambini. Un’estremizzazione che, nell’epoca di Trump, non sembra neanche più così irrealistica.
Verhoeven poi si prende gioco di tutti i film propagandistici, dalla propaganda indiretta dei blockbuster americani a quella diretta di opere come Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, celebre film realizzato sotto il terzo Reich, che viene parodizzato nella prima scena, in cui vediamo uno spot televisivo dell’esercito americano.
Dietro a tutte le sparatorie e ai litri di sangue si nasconde quindi in realtà una feroce critica a un sistema guerrafondaio e fascista, che, ancora una volta, non è stata colta da tutti.
Come successo a quasi tutti i film del regista, col tempo è diventato un cult, nonostante gli incassi non soddisfacenti, se pure non disastrosi come nel caso di Showgirls, ed ha avuto una lunga serie di seguiti tra film, film animati, serie e videogiochi.
Regia: Paul Verhoeven.
Soggetto: Gary Scott Thompson, Andrew W. Marlowe.
Sceneggiatura: Andrew W. Marlowe.
Colonna sonora: Jerry Goldsmith.
Direttore della fotografia: Jost Vacano.
Montaggio: Mark Goldblatt, Ron Vignone.
Produttore: Columbia Pictures, Global Entertainment Productions GmbH & Company Medien KG.
Anno: 2000.
Durata: 112′.
Paese: USA, Germania.
Interpreti e personaggi: Kevin Bacon (Sebastian Caine), Josh Brolin (Matthew Kensington), Elisabeth Shue (Linda McKay), Kim Dickens (Sarah Kennedy).
Veniamo infine all’ultimo film americani di Verhoeven: L’uomo senza ombra, ispirato dal racconto L’uomo invisibile di Herbert George Welles, già trasposto al cinema più volte, a partire dal classico dell’Universal diretto da James Whale.
Per conto dell’esercito degli Stati Uniti il dottor Sebastian Cain sta facendo degli esperimenti. I suoi studi sono volti a scoprire un siero in grado di rendere invisibili. Dopo aver provato il ritrovato sugli animali Sebastian pensa che sia arrivato il momento di sperimentare l’efficacia del siero sulla propria persona. I risultati sono stupefacenti. Lo scienziato diventato invisibile comincia a subire anche un pericoloso cambiamento di carattere. (da Filmtv)
Dispiace dirlo ma l’ultima fatica hollywoodiana del regista è anche la sua opera meno riuscita, della quale si salva veramente poco.
Ritornano alcune delle ossessioni del regista ma molto annacquate: la centralità del corpo (in questo caso l’assenza del corpo e ciò che comporta), l’erotismo e la violenza.
In effetti, Verhoeven cerca di adattare l’idea dell’invisibilità alle sue tematiche, facendola diventare l’espediente attraverso il quale il protagonista da sfogo alle pulsioni che solitamente teneva represse, principalmente riconducibili al sesso e alla violenza, che andranno progressivamente ad intrecciarsi.
Non manca ovviamente il tema del voyeurismo e Verhoeven sembra anche citare il capolavoro hitchcockiano La finestra sul cortile e ancora di più Omicidio a luci rosse di Brian de Palma, direttamente ispirato al film di Hitchcock.
Non bastano però le tematiche care al regista a sopperire alle mancanze di una sceneggiatura che non si sofferma sulle psicologie di personaggi, tutti mediamente stupidi e poco interessanti, né sulla costruzione della tensione, andando a parare in situazioni viste e riviste, condite coi più scontati cliché.
A peggiorare la situazione intervengono dei pessimi effetti speciali, invecchiati malissimo. Il film, giustamente, non venne molto apprezzato in patria ma, nonostante ciò, ebbe inspiegabilmente un seguito.
Dopo una serie di insuccessi commerciali, Verhoeven tornò a una produzione Olandese nel 2006: Black Book.
In seguito a una pausa di dieci anni, il regista è tornato nel 2016 con Elle, coproduzione franco-belga-tedesca, presentata a Cannes e acclamata dalla critica.
Scritto da: Tomàs Avila.
Note:
[1] Martin Scorsese, “Il bello del mio mestiere”, p. 63.