Regia: James DeMonaco.
Sceneggiatura: James DeMonaco.
Soggetto: James DeMonaco.
Colonna sonora: Nathan Whitehead.
Direttore della fotografia: Jaques Jouffret.
Montaggio: Todd E. Miller.
Produttore: Blumhouse Productions, Universal Pictures, Platinum Dunes, Man in A Tree, Dentsu, Fuji Television Network.
Anno: 2016.
Durata: 108’.
Paese: Francia, USA.
Interpreti e personaggi: Frank Grillo (Leo), Elizabeth Mitchell (Senatrice Charlie Roan), Mykelti Williamson (Joe Dixon), Joseph Julian Soria (Marcos), Betty Gabriel (Laney Rucker), Terry Serpico (Earl Danzinger), Edwin Hodge (Dante Bishop).
Sono passati due anni da quando Leo Barnes si è fermato dal portare a termine una deplorevole vendetta durante la Notte del giudizio. A capo della sicurezza per la senatrice Charlie Roan, Leo ha come compito quello di proteggerla nella sua corsa alla presidenza. Quando però un tradimento li costringe a stare per le strade di Washington durante l’annuale notte rituale in cui poveri e innocenti diventano vittime privilegiate, Leo e Charlie dovranno cercare di rimanere in vita fino all’alba. (da FilmTv)
Ritorna Leo, il protagonista del secondo capitolo, diventato ormai l’eroe anti-sfogo, questa volta bersagliato proprio dai padri fondatori e dai mercenari da loro sguinzagliati, perché è stato assunto come guardia del corpo dalla senatrice Charlie Roan, l’unica oppositrice politica del partito dei Nuovi Padri Fondatori, l’unica ad aver avuto il coraggio di schierarsi ufficialmente contro allo sfogo, in seguito all’uccisione della sua famiglia durante uno di questi.
Questo terzo capitolo è l’ideale conclusione di quella che sarebbe dovuta essere probabilmente una trilogia. Vengono tirate le somme, sviluppando i temi dei capitoli precedenti.
Il proletariato ha un ruolo sempre più importante, in particolare la comunità afroamericana, che diventa sempre più centrale, tra gang, baby gang e il gruppo rivoluzionario capitanato da Dante Bishop.
La notte del giudizio: Election Year ricalca la strada percorsa dal precedente, ispirandosi a 1977: fuga da New York e a quel genere di ambientazioni post-apocalittiche (senza che l’apocalisse sia realmente avvenuta). Viene aumentata la dose di azione e viene esibita maggiormente la violenza, che però non è mai fine a sé stessa, né lo scopo principale della saga (a differenza di molte altre saghe horror recenti).
Ancora una volta inoltre le maschere rivestono un ruolo di primaria importanza e sono sempre più fantasiose e parossistiche verso i valori e i simboli americani.
Gli spunti di riflessione offerti da DeMonaco sono ancora innumerevoli. Ad esempio la grottesca trovata del turismo dell’omicidio, ovvero il fatto che “turisti” provenienti da tutte le parte del mondo vadano a sfogarsi in America, sperando che questa tradizione venga esportata anche negli altri continenti. O il fatto che l’organizzazione dei Nuovi Padri Fondatori sia diventata, ancora più che nei film precedenti, una sorta di setta religiosa, fondendo potere temporale e spirituale e perdendo completamente il lume della ragione.
Ma veniamo alla cosa più interessante del film: il clima politico-sociale in cui è stato concepito.
Nell’introduzione di questo speciale abbiamo sottolineato come la saga di La notte del giudizio sia uno specchio dei cambiamenti politici e sociali avvenuti negli ultimi 6 anni negli Stati Uniti.
Cosa è cambiato in questo terzo capitolo? Se i due precedenti erano venuti alla luce in un periodo tutto sommato positivo, o percepito come tale, La notte del giudizio: Election Year, porta sulle spalle, fin dal titolo, il peso e la tensione della campagna elettorale del 2016 che, come sappiamo, si sarebbe conclusa con la vittoria di Donald Trump.
Da sempre il cinema di genere è specchio del malcontento sociale delle varie epoche storiche, in questo caso DeMonaco non cerca neanche di trasfigurare il periodo della campagna elettorale ma semplicemente lo trasporta in un contesto diverso, in un distopico futuro molto prossimo.
Se i richiami a Donald Trump erano espliciti già nel secondo capitolo della saga, questa volta non è un caso che l’unica figura politica positiva sia la senatrice Charlie Roan, guarda a caso una donna, proprio mentre si stavano contendendo la casa bianca Hilary Clinton e Trump.
Ciò che colpisce di questo film è l’ambiguità del messaggio di fondo. Negli episodi precedenti i politici erano i veri antagonisti e l’unico modo per sbarazzarsi della classe politica marcia era la rivolta popolare, una rivolta fatta con le armi e col sangue.
Qui invece i toni cambiano. I rivoltosi vengono messi sotto una luce più negativa. Dante Bishop vuole assassinare i padri Fondatori, non confidando nella senatrice Roan e in questo modo continuando a promuovere un modo di pensare basato sulla legge del taglione.
La speranza in questo caso sta nella Roan e nel suo modo di operare pacifico. Il sistema non viene sconvolto da una rivolta popolare ma dalla politica stessa, o meglio da un cambiamento nella politica.
Non più qualcuno che fa i propri interessi ma una politica che pensa al bene del popolo.
Che Hollywood sia in gran parte pro Clynton è chiaro, lascia un po’ interdetti però il fatto che, nonostante neanche lei sia un personaggio del tutto pulito, la sua proiezione nel film sia l’impeccabile e inattaccabile senatrice Roan. Una divisione manichea tra bene e male, tra giusto e sbagliato che può lasciare delusi ma che fa riflettere su quello che era, e che è lo state of mind di un certo tipo di America. Più o meno l’equivalente di quelli che in questi giorni, qui in Italia, vengono accusati di essere radical chic.
Insomma in un momento in cui la crisi è diventata reale e palpabile, in cui stava avvenendo l’impensabile, che uno come Trump rischiasse di diventare presidente degli Stati Uniti, la saga ha cambiato rotta, diventando improvvisamente pro-establishment. Un fenomeno interessante che ci mostra per l’ennesima volta come non solo sotto un regime dittatoriale il cinema venga usato come arma ideologica.
Il film si chiude con un finale abbastanza lieto, evidentemente necessario nel 2016.
Scritto da: Tomàs Avila.
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