Regia: James DeMonaco.
Sceneggiatura: James DeMonaco.
Soggetto: James DeMonaco.
Colonna sonora: Nathan Whitehead.
Direttore della fotografia: Jaques Jouffret.
Montaggio: Vince Filippone, Todd E. Miller.
Produttore: Blumhouse Productions, Universal Pictures, Platinum Dunes, Why Not Productions.
Anno: 2014.
Durata: 103’.
Paese: Francia, USA.
Interpreti e personaggi: Frank Grillo (Leo), Carmen Ejogo (Eva Sanchez), Zach Gilford (Shane), Zoë Soul (Cali), Justina Machado (Tanya).
Durante l’annuale “notte del giudizio”, un improbabile gruppo di cinque cittadini scoprirà quanto oltre può spingersi per proteggersi e prendere decisioni impossibili. Nel corso della notte, Leo, un solitario sergente che ha perso il figlio la sera prima, si arma fino ai denti per ottenere vendetta contro i responsabili della morte del ragazzo. Avrà modo di imbattersi in Eva, una madre single che vive con la figlia adolescente Cali e che ha bisogno di aiuto, e in Shane e Liz, una coppia sull’orlo della separazione. (da FilmTv)
Visto il grande successo del primo film, DeMonaco e Blum non ci hanno pensato due volte e l’anno dopo è uscito il sequel: Anarchia: La notte del giudizio.
Come spesso succede in questi casi, il budget è stato incrementato (intorno agli 11 milioni di dollari), il che ha permesso al regista di uscire dalle quattro mura in cui era ambientato il primo capitolo, prediligendo le strade di Los Angeles.
Esattamente, la stessa Los Angeles di Fuga da Los Angeles che, insieme ovviamente a 1997: Fuga da New York sono le principali fonti d’ispirazione di DeMonaco, che non ha mai nascosto la sua ammirazione per Carpenter.
Abbandonando la “sicura” villa borghese dei Sandin e scegliendo le strade della città come ambientazione, cambiano per forza i personaggi con cui abbiamo a che fare.
Se il primo capitolo aveva come protagonisti dei benestanti, questa volta il regista si concentra sui proletari, con particolare attenzione per la comunità afroamericana, che andando avanti con la saga assumerà un ruolo sempre più centrale.
Il vero protagonista però è il personaggio interpretato da James Grillo, una sorta di Jena Plissken che vuole sfruttare lo sfogo per portare a termine la sua personale vendetta.
Ancora più del primo capitolo, probabilmente avendo visto che la geniale idea di base era stata apprezzata, i riferimenti all’attualità e i messaggi di stampo politico si sprecano e volendo ben vedere si può dire che DeMonaco sia stato avenieristico in certe intuizioni.
Il trionfo di un partito anti-establishment, che infrange l’equilibrio tra i partiti tradizionali, non può non far pensare all’attuale situazione italiana e anche a ciò che è avvenuto negli Stati Uniti con Donald Trump che, pur avendo trionfato col partito repubblicano, rappresentava una novità non meno importante di quella dell’elezione di Obama, un afroamericano, nel 2009.
In un clima sociale sempre più instabile e dominato dal caos, la gente è più propensa ad appoggiare estremismi di qualsiasi tipo, pur di riportare l’ordine. Portando questo alle estreme conseguenze non appare così improbabile l’idea dello sfogo.
Ovviamente la psicologia spiccia con cui viene promosso lo sfogo nasconde un progetto politico ben preciso, che in Anarchia: La notte del giudizio viene spiegato molto più approfonditamente che nel primo film.
Salvo rare eccezioni, come la famiglia Sandin, a pagare le conseguenze dello sfogo sono i poveri e i nullatenenti, ovvero gli strati deboli della società e gli scarti della società, quelli da cui siamo infastiditi perché ci ricordano costantemente che, anche se noi stiamo bene, non vuol dire che tutto il mondo se la passi come noi. Anzi, ci ricordano che per stare come stiamo c’è bisogno che qualcuno soffra al nostro posto e che, come Atlante, regga sulle proprie spalle il peso del mondo in cui viviamo.
DeMonaco è di questo che ci parla. Ma non lo fa con un film d’essai per una nicchia ristretta di spettatori, lo fa con il sangue, con l’azione, lo fa con un prodotto d’intrattenimento per il grande pubblico e che infatti ha fruttato circa 112 milioni di dollari.
È chiaro che sia schierato ideologicamente e che la sua posizione non sia ambigua ma ben definita.
Tutti sono bestie, durante la notte del giudizio, ma i potenti, in particolare i politici o chi prende le decisioni al posto loro, lo sono 364 giorni l’anno, parafrasando una battuta di La prima notte del giudizio.
Non c’è dubbio che siano tutti dei mostri senza scrupoli, pronti a sterminare milioni di persone per risollevare l’economia del paese e avere l’appoggio del popolo votante.
Il regista però non si risparmia attacchi anche alle classi sociali meno abbienti. Cane mangia cane, tutti cercano di sopravvivere come possono. La lotta di classe non esiste più e, a differenza degli strapotenti, i poveri sono disposti a vendere i propri fratelli a chi ha i soldi per comprarli. Triste ma vero, l’uomo si adatta alle situazioni in cui si trova ed è molto difficili che decida di ribellarsi. Cinico? No, assolutamente realistico ed è la storia a parlare e a ricordarcelo più e più volte. Basta un esempio: i sonderkommandos durante la seconda guerra mondiale.
Ci vuole uno Spartaco affinchè gli schiavi si ribellino ai padroni. E in effetti uno Spartaco sembra esserci: il suo nome è Carmelo Johns ed è il capo della resistenza.
Senza dubbio la sequenza più riuscita dell’intero film, e forse dell’intera quadrilogia, è quella della festa degli strapotenti che, come principale attrazione della serata, hanno organizzato un’asta in cui vengono venduti uomini, come fossero oggetti, per poi divertirsi con una caccia all’uomo (ovviamente le vittime sono tutte appartenenti agli strati sociali più bassi).
Le cose non andranno come previsto perché, sfortunatamente per i ben educati signori, tra le vittime sacrificali c’è il nostro protagonista, che ristabilirà l’equilibrio, eliminando gli aguzzini uno dopo l’altro.
Nonostante un finale in parte buonista e conciliatorio, DeMonaco centra l’obbiettivo e ancora una volta demolisce la presunta civiltà degli Stati Uniti, estremizzando uno dei valori cardine del paese: la libertà.
Tutti sono liberi di fare qualsiasi cosa in America, anche di ammazzare e farsi ammazzare.
E nonostante a un certo punto sembri diventare centrale anche la critica alla diffusione delle armi da fuoco negli States, non commettiamo l’errore di pensare sia quello il significato del film. Non si critica l’estrema facilità nel reperire le armi, si ricorda a tutti che gli USA sono fondati sulla violenza, che è insita nel loro DNA.
Bisogna dedicare infine qualche riga all’utilizzo delle maschere. Come nelle principali saghe horror, è fondamentale che il “travestimento” del villain sia adeguatamente spaventoso. In questo caso però non c’è un solo antagonista, tutti scatenano la propria bestialità e tutti, o quasi, indossano delle maschere e dei travestimenti. Oltre alla ragione più banale, ovvero che trattandosi di un horror, le maschere sono un mezzo per spaventare di più lo spettatore, quali sono le altre ragioni?
Innanzitutto bisogna richiamare la tradizione carnevalesca, il travestirsi per uscire dal ruolo che rivestiamo nella nostra quotidianità per diventare temporaneamente qualcosa di altro.
In secondo luogo, e forse è ancora più interessante, potrebbe essere perché, nonostante sia legalizzato qualsiasi crimine durante lo sfogo, la gente in ogni caso sa che dovrà tornare alla sua quotidianità e quindi per sfogarsi indossa una maschera in modo da non farsi riconoscere.
Qualsiasi sia la ragione, le maschere da questo secondo episodio sono diventate uno dei tratti distintivi della saga.
Scritto da: Tomàs Avila.
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