Regia: Daniele Misischia.
Sceneggiatura: Cristiano Ciccotti, Daniele Misischia.
Colonna sonora: Isac Roitn.
Direttore della fotografia: Angelo Sorrentino.
Montaggio: Dev Singh.
Produttore: Mompracem srl, Rai Cinema.
Anno: 2017.
Durata: 100’.
Paese: Italia.
Interpreti e personaggi: Alessandro Roja (Claudio Verona), Carolina Crescentini (Lorena), Claudio Camilli (Marcello), Euridice Axen (Marta).
Come succede sempre più spesso, ad ogni timido tentativo di riportare un certo cinema di genere made in Italy, perdono tutti la testa parlando di rinascita dell’horror, dell’action, insomma di un ritorno del genere di cui si sente terribilmente la mancanza nel panorama italiano.
Per prima cosa va sottolineato che non bastano due o tre casi isolati per rilanciare un meccanismo produttivo che richiede un elevato numero di produzioni, tra sequel, remake (e tanti film di scarsa qualità, non dimentichiamolo), come ci insegnano i decenni dei ’70 e gli ’80 italiani.
In secondo luogo, per quanto sia comprensibile l’entusiasmo che accompagna l’uscita di queste opere, quando si analizzano bisogna cercare di non lasciarsi condizionare dalla tragica situazione in cui si trova il cinema Italiano.
Dopo i fortunati casi di Lo chiamavano Jeeg Robot e Mine, andati decisamente bene al botteghino, finalmente è uscito The End? L’inferno fuori, l’attesissimo horror di Daniele Misischia, prodotto dai fratelli Manetti.
Il film a quanto pare è stato accolto generalmente in modo molto positivo e ciò che mi domando è se gli sarebbe stato riservato lo stesso trattamento nel caso fosse stato un film non italiano. La domanda è retorica perché per me la risposta è abbastanza evidente: assolutamente no.
Siccome è sempre spiacevole parlare male di film che cercano di proporre qualcosa di effettivamente insolito nel panorama italiano attuale, inizio subito riconoscendo il merito a Misischia e ai Manetti, che vanno apprezzati a prescindere per questo motivo.
Posto ciò, cercherò ora di spiegare come mai, secondo me, The End? L’inferno fuori è un pessimo film dell’orrore, nonché il modo più sbagliato per cercare di rilanciare questo genere in Italia.
Claudio, un importante uomo d’affari, cinico e narcisista, una mattina, andando in ufficio per concludere un importante lavoro per la sua azienda, rimane bloccato in ascensore a causa di un guasto. Purtroppo però quel guasto sarà solo l’inizio. Un virus letale sta trasformando le persone in zombie, infetti dall’istinto omicida. Bloccato tra due piani e intrappolato in una gabbia di metallo, con gli infetti che fanno di tutto per entrare e massacrarlo, Claudio dovrà fare affidamento esclusivamente sul suo istinto di sopravvivenza per uscire da quell’inferno. (da Filmtv)
Partiamo dal fatto che il film pecca di pochissima originalità. Fin dal principio si capiscono quali sono le influenze, troppo ingombranti e che il regista non è stato in grado di rielaborare secondo una sua personale visione.
Se da una parte l’idea dell’ascensore richiama tutta una serie di pellicole claustrofobiche con una singola ambientazione, in primis il notevole Buried- Sepolto di Rodrigo Cortés, ma volendo anche Devil, anch’esso ambientato all’interno di un ascensore, dall’altra la principale ispirazione viene chiaramente da tutto il filone degli zombi-infetti, da Romero in poi.
Per la precisione Misischia opta per gli infetti, che riportano subito a Incubo sulla città contaminata di Umberto Lenzi (anche in The End? La causa della mutazione è dovuta probabilmente a un disastro chimico) ma ancora di più allo splendido 28 Giorni dopo di Danny Boyle, che viene apertamente omaggiato nel finale.
Ovviamente non si può prescindere dall’opera di Romero e dall’utilizzo che ha fatto dello zombi come metafora della società consumistica.
Anche in questo caso gli infetti non sono dei semplici mostri ma una specie di contrappasso per il protagonista che da cinico uomo d’affari, abituato a “divorare” il prossimo, diventa preda di un esercito di infetti decisi, letteralmente, a divorarlo e sarà quindi costretto a mettersi in discussione e forse a cambiare.
E qui arriva una delle prime note dolenti: perché un uomo d’affari che sembra uscito da The Wolf of Wall Street? Se la storia dell’horror ci insegna una cosa è che quanto più si vanno a toccare paure e tematiche contemporanee, tanto più si è efficaci nel turbare lo spettatore. È difficilissimo identificarsi in questa sorta di yuppie che sarebbe stato più a suo agio in un film uscito dagli anni ’80, piuttosto che nel 2018.
E si passa così a quello che per me è il problema più grande: la mancanza di un’idea di fondo che faccia riconoscere il film come un prodotto italiano, una peculiarità che lo renda identificabile in quanto tale.
Claudio non è un personaggio simbolo dell’Italia e nemmeno l’ambientazione romana viene sfruttata a dovere, essendo la pellicola ambientata quasi completamente all’interno dell’ascensore.
Il personaggio dell’uomo d’affari senza scrupoli ricorda per altro un altro film d’infetti molto recente e che ha avuto un grandissimo successo: Train to Busan, di Yeon Sang-ho.
Nonostante neanche l’opera del coreano fosse del tutto convincente, in quel contesto risulta molto più adeguato inserire un personaggio del genere, simbolo dell’alienazione dell’individuo all’interno della società coreana, tema caro per altro anche al cinema nipponico.
Sarebbe stato opportuno scegliere un protagonista appartenente a una categoria diversa, seguendo l’esempio di un altro film di zombi abbastanza recente: The Horde di Yannick Dahan e Benjamin Rocher.
I registi francesi, inserendosi nell’ondata di horror estremi che hanno invaso la Francia nel primo decennio dei 2000, hanno ambientato l’apocalisse zombi all’interno delle banlieue parigine, costringendo poliziotti e criminali a collaborare tra di loro e rappresentando così un forte disagio sociale riscontrabile nella maggior parte delle opere della New French Extremity.
Se invece il regista avesse voluto trattare temi più universali e non strettamente legati al nostro paese, anche in questo caso gli esempi di film europei che ci sono riusciti decisamente meglio non mancano: dal già citato 28 giorni dopo che ha reinventato il filone degli zombi-infetti all’imprescindibile Rec di Jaume Balagueró e Paco Plaza che, attraverso l’espediente del mockumentary, è stato in grado di aggiungere qualcosa di nuovo a un filone già abusato.
A The End? L’inferno fuori manca tutto ciò: manca una forte idea di base, a livello di sceneggiatura come a livello registico; particolarmente irritanti da questo punto di vista sono le innumerevoli zoomate del tutto non necessarie e le inquadrature del corridoio, dell’edificio dall’esterno e della tromba dell’ascensore, dei riempitivi che allungano inutilmente il minutaggio.
A questo si aggiunge la riproposizione di una serie di cliché che gli appassionati del genere hanno visto troppe volte: infetti che sembrano morti e che si rialzano improvvisamente, il fatto che un amico venga infettato e che si debba scegliere se ucciderlo o meno e via dicendo.
Chiaramente sul risultato finale deve aver influito il bassissimo budget che probabilmente ha anche impedito al regista di sbizzarrirsi con le scene splatter, centellinate e molto poco cruente. Ma non è una giustificazione valida.
The End? L’inferno fuori è in conclusione una grandissima delusione, un film che difficilmente potrà arrivare al pubblico di massa italiano e ancora più difficilmente a quello internazionale.
Citiamo nuovamente il caso del coreano Train to Busan che ha incassato 87,5 milioni di dollari a livello mondiale e del quale è già uscito un prequel animato ed è in produzione un sequel.
A prescindere dalla qualità del film, quello è un ottimo esempio di cinema di genere, di un’industria che funziona come dovrebbe.
Scritto da: Tomàs Avila.