Fresh di Mimi Cave, qui al suo debutto alla regia, sotto la produzione di Adam McKay, è un film che farà sicuramente parlare di sé, un film specchio dei nostri tempi, che va a collocarsi in quel filone di opere statunitensi post-metoo.
È interessante notare come stia nascendo un vero e proprio sotto-genere di opere che non sarebbero esistite senza il movimento metoo.
In particolare, Fresh fa coppia con Una donna promettente di Emerald Fennel, film che ha riscosso un ottimo successo alla scorsa edizione degli Oscar, aggiudicandosi il premio per la miglior sceneggiatura originale.
Si potrebbero considerare le due opere come un involontario dittico che, probabilmente, traccia delle linee guida per molti film a venire.
Si tratta di operazioni molto furbe, in grado, come dicevamo, di interpretare il presente, offrendo dei prodotti impacchettati alla perfezione per un target ben preciso.
Sono, innanzitutto, le classiche opere da Sundance, dove spopola quel cinema indie, hipster, spesso fintamente anticonformista e fastidiosamente intellettualoide. Un cinema, per intenderci, vicino a molti dei prodotti A24.
Un cinema che si appropria dei generi storicamente considerati come bassi (categorizzazioni che, ovviamente, risultavano prive di senso fin dalla nascita), l’horror su tutti, cercando di “elevarli”, raccontando storie infarcite di metaforoni esibiti platealmente e cercando di proporre delle riflessioni, il più delle volte di una banalità disarmante.
Prodotti studiati appositamente per un pubblico snob, spesso fintamente progressista, che tenta, proprio come questi film, di elevarsi sopra alla media.
Chiariamoci, questo tipo di cinema esiste da tempo, non è un fenomeno degli ultimi anni.
La novità è data dall’incontro tra questo modo di fare cinema, le tematiche sociali dominanti in questo periodo storico e la modalità con cui spesso vengono affrontate, comprimendo i vari piani della realtà, trasformando una scala di grigi in una visione monocromatica, nel tentativo di adeguarsi a un pubblico che è abituato a pensare allo stesso modo.
Si tratta per altro di una deriva, quella del cinema di genere hipster, che non è passata inosservata anche all’interno dello stesso genere horror.
Si pensi all’ultimo Scream, in cui vengono scimmiottati a più riprese gli horror “intellettuali” alla Babadook, The VVitch (in realtà due ottimi film, felici eccezioni alla regola) e via dicendo.
O ancora di più, si pensi ai protagonisti del recentissimo Texas Chainsaw Massacre, che rispecchiano perfettamente lo stereotipo di hipster, di radical chic. Lo stereotipo del target che hanno, in gran parte, questi prodotti.
In entrambi i casi i classici dell’horror moderno sembrano volersi riaffermare, in tutta la loro bassezza, nel loro essere film di genere, senza dover avere per forza fastidiose pretese autoriali.
Torniamo a Fresh. L’idea di base, seppur interessante, viene ripresa da molti film horror a tema cannibalico: il mangiare altri esseri umani come metafora del possedere, dello sfruttamento, dell’abuso, del consumo del prossimo.
Pensiamo al delirante finale di Society di Yuzna o a Non aprite quella porta di Tobe Hooper. In entrambi i casi il vecchio, la società conservatrice divora e annienta il nuovo.
Questa idea viene riportata, intelligentemente, ai tempi del metoo. Le donne sono carne da macello, gli uomini (tutti, indistintamente) sono cannibali o, nel migliore dei casi, non fanno niente per fermare gli altri.
Impossibile non vedere nella setta dei cannibali (tutti uomini ricchi e potenti) una rappresentazione del sistema patriarcale.
La protagonista, vittima di uno di questi cannibali, anzi di colui che procaccia la carne fresca agli altri cannibali, userà l’ingegno e sfrutterà le debolezze del suo carnefice, in realtà un completo idiota, per salvarsi la pelle.
E che dire delle donne? Sono ovviamente tutte vittime, con una sola eccezione: le donne che sostengono la società patriarcale (come i “negri da cortile” del celebre discorso di Malcom X, di cui si ha un brillante esempio nel personaggio di Samuel L. Jackson in Django).
Come dicevamo, siamo di fronte a un appiattimento totale di una tematica complessa che viene trattata in modo semplicistico e approssimativo, quasi come fosse una vendetta verso il male gaze che ha dominato (e domina tuttora) il cinema americano e che molti studi hanno ampiamente trattato.
Come si devono interpretare opere del genere? Come un tentativo di ribaltare i ruoli e di offrire dei personaggi maschili inevitabilmente negativi, contrapposti a quelli femminili? Come un tentativo di dare più spazio ai personaggi femminili e di eliminare certi topoi maschilisti (su tutti l’eroe che soccorre la fanciulla indifesa)?
Potrebbe aver senso, se venissero affrontate davvero certe tematiche, se si avessero dei personaggi credibili, reali, se non ci si fermasse sempre alla superficie.
Ed è paradossale che difficilmente si riesca ad andare oltre, proprio adesso che si dovrebbe avere una maggiore libertà d’espressione e quindi la possibilità di sviscerare certe tematiche, se si pensa a quante volte, negli anni della Hollywood classica, tra le molteplici limitazioni imposte dalla censura, sono stati rappresentati dei personaggi femminili complessi, reali, lontani dagli stereotipi maschilisti di cui spesso viene accusato tutto il cinema di quel periodo, senza fare distinzioni.
Per non parlare poi del cinema figlio della controcultura, di come sia riuscito ad affrontare queste (e molte altre) tematiche senza la noiosa retorica a cui siamo sottoposti oggi.
Un esempio particolarmente calzante è lo splendido Femina Ridens di Piero Schivazzappa, opera incentrata proprio sulle dinamiche di potere tra uomo e donna, affrontate con un’intelligenza e una sottigliezza di cui si sente profondamente la mancanza.
Ma restiamo nel presente, non mancano opere riconducibili a questo filone post-metoo che siano state in grado di andare oltre ai limiti di cui soffrono Fresh e Una donna promettente.
Pensiamo a L’uomo invisibile di Leigh Whannell del 2020, film palesemente figlio del metoo ma molto intelligente nello sfruttare il cinema di genere per affrontare allegoricamente questi temi.
Torniamo dunque alle domande poste precedentemente: qual è il senso di questi film? Come interpretarli?
Come dicevamo all’inizio, anche in riferimento ai film dell’A24, si tratta di prodotti confezionati freddamente a tavolino, nel tentativo di cavalcare l’interesse (spesso falso, va ribadito) verso queste tematiche, come si può facilmente intuire anche dalle cerimonie degli Oscar degli ultimi anni.
Un progressismo di facciata, tipico di Hollywood, amplificato dai nostri tempi, in cui sembra sempre più difficile spingersi oltre la superficie e abbandonare questa visione monocromatica che ormai è diventata dominante.
Scritto da: Tomàs Daniel Avila Visintin