Indice:
–Top 10
–Commento ai film
TOP 10
Tomàs Avila:
- Il filo nascosto, di Paul Thomas Anderson
- Suspiria, di Luca Guadagnino
- Climax, di Gaspar Noé
- Cold War, di Pawel Pawlikowski
- First Reformed, di Paul Schrader
- Roma, di Alfonso Cuarón Orozco
- The House That Jack Built, di Lars Von Trier
- Mute, di Duncan Jones
- Annientamento, di Alex Garland
- Hereditary- Le radici del male, di Ari Aster
Nina C. Meschini:
- Cold War, di Pawel Pawlikowski
- Il filo nascosto, di Paul Thomas Anderson
- La casa delle bambole- Ghostland, di Pascal Laugier
- Il sacrificio del cervo sacro, di Yorgos Lanthimos
- Tonya, di Craig Gillespie
- La forma dell’acqua- The Shape of Water, di Guillermo del Toro
- L’uomo che uccise Don Chisciotte, di Terry Gilliam
- Roma, di Alfonso Cuarón Orozco
- Un sogno chiamato Florida, di Sean Baker
- Suspiria, di Luca Guadagnino
COMMENTO AI FILM
Nel 2015 aveva firmato il suo esordio alla regia con Ex Machina, dopo anni da sceneggiatore (a lui si devono film come 28 giorni dopo, Sunshine e Non lasciarmi).
Torna con Annientamento Alex Garland, confermandosi uno degli autori fantascientifici più interessanti degli ultimi anni.
Il suo sguardo si riconosce subito e anche con Annientamento il regista sceglie di seguire la scia dei grandi capolavori della fantascienza filosofica, come 2001 Odissea nello Spazio, Solaris ma in particolare Stalker.
Ispirandosi all’omonimo romanzo di Jeff VanderMeer (il primo di una trilogia), Garland realizza un’opera in cui la fantascienza e la creatura aliena servono a riflettere sull’uomo e sulla sua innata pulsione all’autodistruzione.
Molto suggestivo nelle ambientazioni e nelle tematiche, Annientamento è senza dubbio uno dei migliori film di fantascienza visti negli ultimi anni, un caso ormai sempre più raro, in un periodo dominato dalla nuova saga di Star Wars e dai film Marvel.
Per un parere più approfondito vi rimandiamo alla nostra analisi.
LA CASA DELLE BAMBOLE- GHOSTLAND
Il ritorno di Pascal Laugier dopo ben sei anni dal suo I bambini di Cold Rock. Nonostante il mio rapporto con questo regista sia pressoché nullo (poiché mi rifiuto categoricamente di avere a che fare con il suo, a detta di molti, masterpiece Martyrs), devo ammettere con questo Ghostland si è aperto uno spiraglio per la rappacificazione. Senza anticipare troppo, mi è risultato quasi impossibile rimanere indifferente di fronte ad un plot twist degno della mente di David Lynch, personaggi e una casa che sembrano usciti da un film di Rob Zombie, come sottolinea una delle due protagoniste ed un’ambientazione in stile Non aprite quella porta. Senza indugio lo proclamo horror migliore di quest’anno – e che il buon Guadagnino non me ne voglia.
Per un parere più approfondito vi rimandiamo alla nostra recensione.
Torna Gaspar Noè e ormai, lo sappiamo, ogni volta che esce un suo film si solleva un polverone tra i fedeli ammiratori che gridano al capolavoro e gli altrettanto fedeli detrattori.
A dire la verità, questa volta sembra esserci più consenso rispetto ai suoi film passati.
Il regista realizza un’altra opera estrema, forse la più estrema della sua filmografia, nonostante sia quella meno esplicita.
I vorticosi movimenti di macchina, la fotografia dominata dal rosso, le urla dei personaggi che si fondono con la colonna sonora elettronica: Noè trasporta lo spettatore in un inferno terrestre in cui, a causa dell’LSD messa nella sangria, una compagnia di ballerini isolata in un edificio in mezzo al nulla, si abbandonerà agli istinti più reconditi, tra omicidi, incesti e violenze di qualsiasi genere.
Un omaggio a Suspiria di Dario Argento, una sterile provocazione o l’altro lato della medaglia di Enter The Void, uno dei migliori (o peggiori) bad trip visti sul grande schermo.
Se ne sentiranno dire di tutti i colori ma come sempre Gaspar Noè continua per la sua strada, prendere o lasciare.
Pawel Pawlikowski, regista polacco già vincitore di un oscar al miglior film straniero con Ida, realizza un melodramma storico in bianco e nero, ambientato nel pieno della Guerra Fredda.
Il regista racconta la storia di un amore impossibile, ostacolato dalle divisioni politiche come da quelle private e psicologiche.
Sullo sfondo un’Europa divisa, come i protagonisti del film, e in particolare un Est Europa sulla strada del cambiamento e dell’apertura, come sottolineato dal notevole commento musicale che segue il passare degli anni e il mutare della società.
Cold War è una storia d’amore impossibile ma anche la Storia dell’Europa in un periodo, quello della Guerra Fredda, che ritorna in molti dei film presenti in questa classifica.
Paul Thomas Anderson firma un vero e proprio capolavoro, probabilmente il suo miglior film insieme a Il Petroliere, ancora una volta con un’incredibile interpretazione di Daniel Day-Lewis, qui in uno dei suoi migliori ruoli.
Il regista ha curato anche la splendida fotografia, per la prima volta.
Il filo nascosto, girato in 35mm, è modernissimo ma allo stesso tempo sembra uno dei grandi film del passato, con un occhio di riguardo per il cinema di Hitchcock.
PTA racconta una storia d’amore complessa e stratificata, dove si supera la superficie e si analizza il rapporto tra eros e thanatos, concentrandosi sulla morbosità dei rapporti e sul ruolo dell’arte, dell’artista e della musa ispiratrice.
Dopo una serie di pellicole non molto riuscite, come The Canyons e Cane mangia cane, Paul Schrader torna con una delle sue opere migliori.
Per chi non sapesse di chi stiamo parlando, Schrader è uno degli autori più importanti della New Hollywood, sceneggiatore di film come Yakuza, Taxi Driver e Toro scatenato, nonché regista di Hardcore e American Gigolò.
Schrader è inoltre un grande critico cinematografico e First Reformed non è altro che la concretizzazione dei suoi studi sullo stile trascendente, esposto in uno dei suoi libri più celebri (Il trascendente nel cinema: Ozu, Bresson, Dreyer).
Il regista si libera degli elementi pop e barocchi dei film precedenti a favore di uno stile essenziale, dominato da riprese a macchina fissa, in cui i movimenti di macchina si contano sulle dita di una mano e l’aspect ratio 1,33:1 (quello utilizzato tra il 1932 e il 1953) ci rinchiude nella prigione dentro alla quale vive il protagonista.
Un film sul senso di colpa, sulla religione, sul cambiamento ambientale, un miscuglio di generi, dal dramma al noir, che esplode in un finale che è l’altra faccia di quello di Taxi Driver.
LA FORMA DELL’ACQUA- THE SHAPE OF WATER
L’ultima fiaba fantasy – per adulti – di Guillermo Del Toro ha fatto incetta di premi agli ultimi Oscar 2018 aggiudicandosi ben 4 statuette.
Per un parere più approfondito vi rimandiamo alla nostra analisi.
HEREDITARY- LE RADICI DEL MALE
Fino a ora abbiamo parlato di grandi ritorni e di conferme, è arrivato il momento di dare spazio a un esordiente: Ari Aster.
Aster è un regista statunitense, venuto fuori dal nulla (in realtà già conosciuto per dei cortometraggi e mediometraggi molto interessanti) con uno dei film più discussi dell’anno: Hereditary.
Si tratta di un horror psicologico dapprima acclamato come L’esorcista della nostra generazione e in seguito demolito dai più.
Hereditary è un grande film, dal quale ben traspare il talento del regista (e sceneggiatore) che ha dato vita a un weird horror, incentrato sui culti pagani, che tuttavia è anche una grande metafora della malattia mentale e il racconto di una famiglia disfunzionale destinata a sfasciarsi.
Un grande esordio per un regista che sicuramente ci regalerà in futuro delle perle, se si manterrà su questo livello.
Per un parere più approfondito vi rimandiamo alla nostra analisi.
Lars Von Trier è un regista di culto, basta il suo nome per accendere l’interesse o suscitare il disprezzo di molti spettatori. Specialmente se si ha a che fare con un film di Von Trier che esplora la contorta psicologia di Jack, un serial killer che ci racconta cinque “incidenti” che lo hanno portato ad altrettanti omicidi, nel corso della sua vita.
Ma siamo sicuri che si tratti solo di questo? Certo che no, come sempre Von Trier sfrutta il cinema come autoterapia e finisce per parlare di sé, aprendosi completamente davanti al suo pubblico.
Dopo la trilogia della depressione, il regista apre un nuovo capitolo della filmografia, molto vicino per stile al modello del precedente Nymphomaniac, e dà vita a una profonda allegoria sull’arte e sul ruolo dell’artista, in particolare sul suo ruolo di artista.
Von Trier parla sempre di sé attraverso i suoi film ma questa è probabilmente la sua opera più autobiografica e sentita.
Inutile il polverone sollevato per le scene gore, che non impressioneranno chi ha visto qualche horror.
Dopo il clamoroso passo falso di Warcraft- L’origine, Duncan Jones torna al genere a lui più congeniale, la fantascienza, con un progetto di cui si parlava da anni, praticamente da dopo Moon, il suo film d’esordio, e che, a quanto pare, aveva intenzione di realizzare addirittura da prima.
Mute è ambientato in una Berlino cyberpunk, chiaramente ispirata all’immaginario plasmato da Scott con Blade Runner, ma la fantascienza cede presto il passo a un racconto grottesco, in realtà profondamente drammatico e cinico, riguardo al rapporto genitore-figlio.
Non a caso il film è dedicato a David Bowie, il padre di Jones, e a sua madre.
Un’opera molto personale, difficile da decifrare e che ha deluso la maggior parte dei fan del regista.
Jones in realtà realizza un film molto profondo, in cui si notano le influenze pulp di Tarantino e dei personaggi grotteschi dei Coen, un film originale, unico nel suo genere che, probabilmente, proprio a causa della sua atipicità non è stato apprezzato dai più.
Per un parere più approfondito vi rimandiamo alla nostra analisi.
Alfonso Cuarón, a distanza di sei anni da Gravity, torna con quello che è il suo film più personale, un affresco del Messico del 1971 e il ritratto di una famiglia messicana che prende forma dai ricordi d’infanzia del regista.
Girato in uno splendido bianco e nero, e fotografato dallo stesso Cuarón, Roma prende ispirazione dai più grandi registi italiani, dagli autori neorealisti a Fellini, passando per Antonioni.
Cuarón riesce a immergerci nella Città del Messico delle sue memorie, raccontandoci una vicenda in cui le vicende personali si intrecciano con la Storia di un paese in cambiamento, segnato dalla diversità sociale e dagli scontri di classe.
Un grandissimo film che conferma il talento del regista e l’importanza del nuovo cinema messicano.
Per un parere più approfondito vi rimandiamo alla nostra analisi.
Seppur minore dei suoi predecessori, rimane comunque meritevole di una menzione il penultimo Lanthimos, regista greco tra i miei preferiti del decennio.
Per un parere più approfondito vi rimandiamo alla nostra recensione.
Un altro tentativo di evadere da una realtà stretta è portato sullo schermo quest’anno da Sean Bakery, noto per il suo Tangerine. Potrebbe conquistarvi proprio per il contrasto fra i colori sgargianti e la realtà miserabile con la quale sono costretti a fare i conti i protagonisti, proprio a due passi da Disneyland.
Guadagnino, dopo il successo di Call Me by Your Name, cambia genere e passa all’horror con un’opera complicata ed estremamente ambiziosa: il remake di Suspiria, il capolavoro del 1977 di Dario Argento.
Il regista spiazza chi si aspettava un remake svogliato e canonico, realizzando un film che prende le mosse da quello di Argento ma che percorre una strada completamente differente, a partire dall’ambientazione, per arrivare alle ambizioni.
Il Suspiria di Guadagnino è un’opera profondamente politica che riflette sugli orrori della Storia, sulla colpa, sull’arte e molto altro ancora.
Impossibile rendergli onore in poche righe, quindi non possiamo fare altro che consigliarvelo e di rimandarvi a un’analisi più approfondita che uscirà prossimamente.
Bellissimo e atipico biopic sulla vita – o meglio sull’incidente – della pattinatrice Tonya Harding, interpretata da una meravigliosa Margot Robbie. La prova, a parer mio, che non tutti i biopic devono essere delle copie carbone di avvenimenti in sequenza per due ore per essere meritevoli. Il film mostra infatti il trionfo di Tonya Harding ma soprattutto la morte dell’American dream; il declino la renderà infatti il bersaglio dell’odio dell’opinione pubblica che prima l’aveva tanto osannata.
L’UOMO CHE UCCISE DON CHISCIOTTE
Un’opera così folle e sconclusionata che vanta moltissimi difetti e ingarbugliamenti della trama dovuti proprio alla lunghissima e travagliata gestazione, ma che è impossibile non amare.
Per un parere più approfondito vi rimandiamo alla nostra recensione.