Tratteremo quattro dei suoi film:
–La corta notte delle bambole di vetro, 1971
–L’ultimo treno della notte, 1975
CHI L’HA VISTA MORIRE
Regia: Aldo Lado.
Soggetto: Francesco Barilli, Massimo D’Avak.
Sceneggiatura: Francesco Barilli, Massimo D’Avak, Aldo Lado, Ruediger von Spies.
Colonna sonora: Ennio Morricone.
Direttore della fotografia: Franco Di Giacomo.
Montaggio: Angelo Curi.
Produttore: Dieter Geissler Filmproduktion, Doria G. Film, Roas Produzioni.
Anno: 1972.
Durata: 90′.
Paese: Italia, Monaco.
Interpreti e personaggi: George Lazenby (Franco Serperi), Anita Strindberg (Elizabeth Serpieri), Adolfo Celi (Serafian), Dominique Boschero (Ginevra Storelli), Peter Chatel (Philip Vernon).
A distanza di anni dall’omicidio di una bambina, la figlia dello scultore Serpieri, che vive a Venezia, scompare misteriosamente. Lo scultore inizierà una disperata ricerca, nella quale verranno coinvolte sempre più persone.
L’hanno successivo a La corta notte delle bambole di vetro, Lado gira quello che ad oggi è il suo film più noto, un vero e proprio cult del giallo all’italiana (a tinte horror) che, nonostante non sia all’altezza della sua opera d’esordio, né de L’ultimo treno della notte, è una pellicola molto interessante che da alcuni punti di vista anticipa di qualche anno diversi film, riusciti meglio, come A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg, uscito l’anno seguente, e La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati, del 1976.
Per cominciare, ancor più che nel caso de La corta notte delle bambole di vetro, è inevitabile il paragone con il modello argentiano, al quale, questa volta, Lado chiaramente guarda e si ispira.
Abbiamo un maniaco che si lascia dietro una scia di morti, abbiamo le caratteristiche tipiche dell’assassino argentiano (in primis i guanti neri, anche se qui sono di pizzo), abbondano poi le soggettive, sia quelle dell’assassino che quelle delle vittime.
C’è anche una maggiore ricerca nella costruzione degli omicidi, nonostante da questo punto di vista Lado non riesca a raggiungere la creatività e il talento estetico di Argento.
Insomma siamo molto più vicini alla Trilogia degli animali, rispetto al film d’esordio del regista.
Chiarita la forte influenza del giallo alla Dario Argento, passiamo ora ad analizzare le caratteristiche che lo hanno reso un vero e proprio cult.
In primo luogo l’ambientazione. Una Venezia perfetta per un film horror e ripresa infatti l’anno successivo da Nicolas Roeg: torbida, nebbiosa, inquietante ma allo stesso tempo affascinante. Inoltre spesso sentiamo dei personaggi parlare in dialetto, caratteristica non indifferente perché è un’affermazione dell’appartenenza del regista a quella città, dove, come già detto precedentemente, è cresciuto prima di trasferirsi a Parigi.
C’è il tentativo di affermare l’identità italiana del film, di un cinema strettamente legato al paese da cui proviene, come poi accadrà con ancora più forza nel capolavoro di Pupi Avati La casa dalle finestre che ridono, che riprende inoltre un altro dei punti di forza della pellicola di Lado, come vedremo.
In secondo luogo è diventata molto famosa le colonna sonora, composta da Ennio Morricone (altro collegamento coi film di Argento), in particolare l’inquietante nenia cantata dai bambini, che anticipa quasi sempre la comparsa dell’assassino.
Una cosa che invece si nota avendo visto tutti gli horror di Lado, è il fatto che le principali vittime siano i giovani, in questo caso addirittura delle bambine. È raro trovare film, anche in quel periodo, in cui l’assassino sia un pedofilo (le bambine vengono anche violentate prima di essere uccise) e questa scelta rende il tutto ancora più morboso, specie alla luce della rivelazione finale dell’idendità dell’assassino, colpo di scena in realtà non troppo imprevedibile ma sicuramente efficace.
Il tema delle violenze sui bambini è caro al regista, che infatti proverà ad affrontarlo nuovamente con Il notturno di Chopin, adottando un punto di vista differente rispetto a quello di Chi l’ha vista morire?.
Oltre scegliere i bambini, simbolo dell’innocenza, come vittime, Lado non si fa mancare una critica a tutto il mondo borghese e a quello aristocratico che circondano il protagonista.
Poco per volta ci verranno mostrati i lati oscuri dei vari personaggi, tra prostituzione, droghe e omicidi insabbiati.
Il marciume e la falsità di praticamente tutti i personaggi fa sì che la rivelazione finale dell’identità dell’assassino non eviti di lasciare l’amaro in bocca per quanto visto, anzi, tra tutti lui sembra il più debole, infatti viene protetto, in quanto membro della famiglia, da chi ha più potere.
L’assassino è, come nei film di Argento, malato di mente, agisce irrazionalmente e la colpa è più che altro dei suoi familiari che cercano di nascondere la sua malattia e insabbiare gli omicidi.
La spiegazione finale sui traumi subiti dall’assassino in tenera età (a causa della madre) e il fatto che si travesta da donna per uccidere, non possono non far venire in mente Psycho di Alfred Hitchcock e allo stesso tempo il meraviglioso finale de La casa dalle finestre che ridono, in cui torna sia il parroco-assassino che il tema del travestitismo, anche se al contrario.
Per concludere Chi l’ha vista morire? è un film che senza dubbio ha una sua importanza per le influenze che ha avuto su opere posteriori, Lado riesce a portare avanti le sue tematiche predilette, restando in un contesto di cinema di genere, senza però raggiungere gli apici che toccherà con il prossimo film che analizzeremo.
L’ULTIMO TRENO DELLA NOTTE
Regia: Aldo Lado.
Soggetto: Renato Infascelli, Ettore Sanzò.
Sceneggiatura: Renato Infascelli, Ettore Sanzò, Aldo Lado, Renato Izzo.
Colonna sonora: Ennio Morricone.
Direttore della fotografia: Gábor Pogány.
Montaggio: Alberto Galliti.
Produttore: European Incorporation, Rewind Film.
Anno: 1975.
Durata: 94′.
Paese: Italia.
Interpreti e personaggi: Flavio Bucci (Blackie), Macha Méril (La donna del treno), Gianfranco De Grassi (Curly), Enrico Maria Salerno (Dr. Giulio Stradi), Marina Berti (Laura Stradi), Irene Miracle (Margaret Hoffenbach).
In occasione delle vacanze di Natale, Elisa Stradi, figlia sedicenne di un chirurgo, parte dalla Germania per recarsi in Italia assieme alla cugina Margareth. In Austria,a causa di un attentato, le due compagne di viaggio sono costrette a cambiare treno. Su un convoglio semideserto diretto a Verona diventano vittime di due giovani delinquenti e di una signora borghese. Lanciatasi dal treno in corsa, Margareth muore. I tre si liberano allo stesso modo anche di Elisa. Scesi dal treno si imbattono nel padre che si vendica. (da FilmTv)
Arriviamo al 1975, anno in cui Lado, dopo aver abbandonato l’horror per dedicarsi a due film erotici e un dramma, torna al genere con un’altra pellicola che, col tempo, si è guadagnata il titolo di cult italiano.
Con L’ultimo treno della notte, il regista abbandona completamente il modello argentiano e in generale il giallo all’italiana, per spostarsi verso atmosfere molto più realistiche e se possibile ancora più malsane rispetto alle opere precedenti.
I modelli di riferimento cambiano radicalmente. Questa volta Lado guarda, senza dubbio, a Cani arrabbiati di Bava, capolavoro assoluto del 1974 che è stato riconosciuto a posteriori come uno dei precursori del pulp tarantiniano e che chiaramente ha ispirato profondamente Le iene, già a partire dal titolo.
I protagonisti diventano così dei giovani delinquenti, messi a confronto col il mondo borghese, fintamente progressista e i cui presunti valori morali, che li portano a guardare con disprezzo le nuove generazioni, non sono altro che dei costrutti fasulli dietro ai quali nascondersi.
Se Cani arrabbiati è stata una delle principali fonti d’ispirazione, senza ombra di dubbio il modello ancora più evidente è L’ultima casa a sinistra, film di Wes Craven del 1972 che è passato alla storia per essere uno dei capostipiti del new horror americano.
L’ultimo treno della notte riprende precisamente la trama del film di Craven, cambiando pochissimi dettagli, tanto che, tra i vari titoli alternativi che vennero dati negli USA al film (pratica molto comune allora, quella di avere un vasto numero di titoli associati alla stessa opera), richiamavano direttamente L’ultima casa a sinistra, presentando il film di Lado come un sequel.
Tra i vari titoli: New House on the Left, Second House on the Left, The New House on the Left, Last House – Part II.
Come per il film di Craven quindi, anche per L’ultimo treno della notte non si può non citare quello che è il grande punto di riferimento: La fontana della Vergine di Ingmar Bergman, del 1960, del quale i due film in questione sembrano una sorta di riadattamento adeguato ai nostri tempi.
Qual è quindi il grande cambiamento che introduce L’ultimo treno della notte all’interno della filmografia di Lado? Lo stesso che portò Cani arrabbiati per Bava e L’ultima casa a sinistra per il cinema americano.
Viene abbandonata del tutto la finzione, l’interesse per meccanismi come quello del whodunit, tipici del giallo, per concentrarsi sull’attualità mettendo in scena, attraverso il genere, un vero e proprio scontro generazionale, uno scontro di valori, oltre che uno scontro fisico, che porterà a due conclusioni.
In primo luogo il fatto che l’odio genera odio e che la violenza non può che portare, inevitabilmente, ad altra violenza.
Secondariamente il fatto che le distinzioni generazionali, che pure paiono così evidenti nella prima parte del film, sono in realtà solo sovrastrutture che vengono meno quando emerge la reale natura umana, che accomuna tutti ed è fondata sull’istinto animalesco e sulla brutalità, intrinseca nella nostra specie.
Ciò è messo in risalto anche attraverso un abile utilizzo del montaggio alternato che affianca le violenze perpetrate dai due delinquenti verso le ragazze indifese, ai discorsi tra borghesi, che discutono di quanto la violenza sia sbagliata e di quanto le nuove generazioni siano cresciute senza educazione e quindi più propense alla violenza.
Come se non bastasse, l’intelligente sceneggiatura di Roberto Infascelli e Renato Izzo, introduce un personaggio che complica le dinamiche tra i due delinquenti e le giovani indifese: la donna del treno, di cui non scopriamo il nome, è il simbolo di quanto la repressione borghese degli istinti più naturali e l’imposizione di tabù, porti in realtà alla perversione più morbosa e, in questo caso, pericolosa.
All’inizio del film sentiamo le due ragazze parlare delle loro esperienze sessuali, in modo diretto e senza giri di parole, suscitando il disappunto di chi le circonda. Il film è del 1975, qualche anno dopo sarebbe esploso uno dei generi più reazionari dell’horror moderno, lo slasher, in cui a essere puniti sono proprio i ragazzi che si drogano, fanno sesso e non rispettano i valori conservatori.
Lado inizialmente sembra prendere questa strada, per poi cambiare direzione e giocare con gli stereotipi e le aspettative create dallo spettatore, portando avanti il discorso cominciato con La corta notte delle bambole di vetro.
Il personaggio della donna del treno è la rappresentazione del fatto che la liberalizzazione dei costumi e conseguentemente l’abolizione dei tabù, non solo non debba essere vista come una cosa negativa ma anzi eviti di creare mostri, mentalmente disturbati proprio a causa dell’impossibilità di poter esplicitare i propri istinti.
Un altro personaggio di questo tipo è l’uomo d’affari che violenta una delle due ragazze, per poi scappare dal treno e come se niente fosse tornare dalla sua famiglia.
Insomma, di sicuro i due delinquenti, che sono giovani evidentemente allo sbando, sono gli antagonisti del film ma tutti i personaggi che li circondano sono anche peggio, perché sono dei mostri nascosti dietro una facciata di buoni costumi e valori morali.
Con L’ultimo treno della notte Lado firma forse il suo film migliore, il più estremo e violento, in cui però la violenza non è mai fine a sé stessa, né estetizzante, ma dolorosa e realistica.
Un vero e proprio cult del cinema di genere italiano, che dopo anni non perde la sua forza e che non ha nulla da invidiare al modello americano L’ultima casa a sinistra.
IL NOTTURNO DI CHOPIN
Regia: Aldo Lado.
Soggetto: Aldo Lado.
Sceneggiatura: Aldo Lado.
Direttore della fotografia: Felice de Maria.
Montaggio: Aldo Lado.
Produttore: Angera Films.
Anno: 2013.
Durata: 80′.
Paese: Italia.
Interpreti e personaggi: Aofia Vercellin (Alessia).
Una bambina di nome Alessia viene rapita da un maniaco mentre sta giocando al parco. Rinchiusa in uno scantinato, proverà in ogni modo a fuggire, sia fisicamente che mentalmente.
A 37 anni di distanza da L’ultimo treno della notte, Lado torna al genere con un film che, purtroppo, non regge il paragone con le sue opere migliori.
Per prima cosa va detto che, nonostante Il notturno di Chopin venga in diverse sedi classificato come film dell’orrore, in realtà di horror ha poco o nulla. Sarebbe forse più corretto parlare di dramma, per non deludere le aspettative di chi si aspettasse un film come i precedenti del regista.
Si tratta di un film low budget, girato in digitale, con un cast di attori non professionisti e principalmente un’ambientazione, uno scantinato con le pareti rosse.
L’opera inoltre non ha trovato distribuzione cinematografica ed è stata rilasciata direttamente per l’home video.
Dopo il piano sequenza iniziale in cui il rapitore sceglie la sua vittima, il film si sposta per tutta la sua durata all’interno del suddetto scantinato, luogo fisico ma allo stesso tempo rappresentazione mentale della piccola Alessia.
È proprio intorno a lei, infatti, che ruota tutto il film.
Lado ha già avuto modo di parlare di scomparse e rapimenti, nei suoi precedenti film, toccando anche il tema della pedofilia in Chi l’ha vista morire?.
Ritorna quindi a un tema a lui caro, adottando però questa volta un punto di vista inedito: quello della bambina.
Come da lui specificato in un’intervista[1], spesso si è mostrato il rapimento di bambini dal punto di vista dei genitori, allo stesso modo è stato adottato il punto di vista dei poliziotti che svolgono le indagini o a del rapitore stesso.
Molto meno di frequente invece ci si è concentrati sulle vittime del rapimento.
Così Lado incentra il film su Alessia, che di fatto è l’unico personaggio del film, oltre alle varie comparse che vediamo dalla finestra dello scantinato in cui la bambina è rinchiusa, l’unico anello di congiunzione rimasto tra la bambina e il mondo esterno.
Nemmeno il rapitore viene mai mostrato direttamente, si vedono dettagli del suo corpo, spesso le mani, mentre è intento a suonare i notturni di Chopin al pianoforte.
Nonostante l’idea di partenza, potenzialmente interessante, Lado questa volta non riesce a reggere il passo coi tempi, realizzando un film che dal punto di vista tecnico, salvo qualche raro momento in cui la fotografia sembra più curata, è abbastanza disastroso, specie dal punto di vista del sonoro.
I mezzi sono scarsi e lo si capisce fin troppo, come del resto non è all’altezza neanche la sceneggiatura. Senza dubbio il soggetto si sarebbe prestato meglio a un corto-mediometraggio, invece, nonostante il film duri solo 80 minuti, i tempi sono fin troppo dilatati per ciò che viene raccontato.
Il viaggio nella psiche della bambina, tra i ricordi della madre, la speranza di poter rivedere la luce e l’incapacità di comprendere il perché si trovi in quella condizione, non è approfondito e si giunge alla conclusione, con un falso lietofine, sognato da Alessia, seguito dal vero finale, che lascia purtroppo perplessi e insoddisfatti.
Un gran peccato. La speranza è che Lado riesca a girare ancora qualcosa, anche se non è facile, sempre stando alle sue interviste, per uno come lui, trovare finanziamenti per i progetti che veramente vorrebbe realizzare.
In ogni caso, lasciando da parte la delusione de Il notturno di Chopin, Lado resta uno dei registi di genere più interessanti tra quelli emersi negli anni ’70 e il suo sguardo, il suo modo di piegare il genere ai temi da lui prediletti, rendono inconfondibili e unici i film che abbiamo trattato in questo breve speciale.
Scritto da: Tomàs Avila.
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