Gli horror di Aldo Lado: Parte 1

In Aldo Lado, Cinema, Tomàs Avila by Tomas AvilaLeave a Comment

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Abbiamo parlato di Mario Bava e di Dario Argento, manca ancora Lucio Fulci per completare la triade dei registi italiani di genere più noti. Abbiamo anche dedicato uno speciale alla trilogia dei cannibali di Ruggero Deodato e sicuramente continueremo a trattare altri registi meno noti.

Tra i molti nomi usciti fuori negli gli anni ’70, quello di Aldo Lado non è tra i più conosciuti, perlomeno non ai livelli di Argento, Bava e Fulci, ma tra gli appassionati è considerato, non a torto, uno dei registi più interessanti emersi nell’ambiente del cinema di genere di quella decade.

Siccome questa rubrica è dedicata agli horror italiani, non ripercorreremo l’intera filmografia di Lado, che ha spaziato tra diversi generi: dai film erotici come La cugina alla fantascienza de L’umanoide, dal dramma di guerra de La disubbidienza ai polizieschi come Alibi perfetto.

Lado, nato il 5 dicembre 1934 a Fiume e cresciuto a Venezia, ha iniziato ad avvicinarsi al mondo del cinema a Parigi per poi trasferirsi a Roma e lavorare come aiuto regista in diversi film, tra i quali Il conformista di Bernardo Bertolucci, e come sceneggiatore di film quali La vittima designata, Carogne si nasce e Un’anguilla da 300 milioni.

Nel 1971 esordì alla regia con La corta notte delle bambole di vetro, seguito l’anno successivo da Chi l’ha vista morire?, probabilmente il suo più grande successo commerciale.
Lado ha poi girato diverse altre pellicole e serie-tv per la Rai. Il suo ultimo film è del 2013 e negli ultimi anni si è dato alla scrittura. Nel 2017 è stato pubblicato il suo libro I film che non vedrete mai, una raccolta di storie per il cinema mai girate.

Tratteremo quattro dei suoi film:

La corta notte delle bambole di vetro, 1971 

Chi l’ha vista morire?, 1972

L’ultimo treno della notte, 1975

Il Notturno di Chopin, 2013

Come vedremo, i primi due sono stati influenzati dal seminale Sette donne per l’assassino di Bava ma soprattutto dai gialli di Argento. Tuttavia, tra tutti gli esemplari del filone di pellicole che hanno cercato di ricalcare il modello argentiano, quelle di Lado sono tra le poche a prenderne le debite distanze e a ricercare uno sguardo diverso e molto personale, similmente a quanto fece Fulci.

Tra le opere del regista, queste sicuramente sono quelle che più si avvicinano all’horror, con l’eccezione de Il Notturno di Chopin, che tuttavia risulta classificato, impropriamente, come horror e che ci interessa particolarmente per il fatto che si tratta del ritorno di Lado alla regia dopo 19 anni.

LA CORTA NOTTE DELLE BAMBOLE DI VETRO 

 

Regia: Aldo Lado.
Soggetto: Aldo Lado.
Sceneggiatura: Aldo Lado, Reudiger Von Spies.
Colonna sonora: Ennio Morricone.
Direttore della fotografia: Giuseppe Ruzzolini.
Montaggio: Mario Morra.
Produttore: Dieter Geissler Filmproduktion, Doria G. Film, Dunhill Cinematografica, Jadran Film, Rewind Film, Surf Film.
Anno: 1971.
Durata: 97′.
Paese: Italia, Germania Ovest, Yugoslavia.
Interpreti e personaggi: Jean Sorel (Gregory Moore), Ingrid Thulin (Jessica), Mario Adorf (Jaccques Versain), Barbara Bach (Mira Svoboda).

 

Praga, anni della Guerra Fredda. Il reporter Gregory Moore (Jean Sorel) viene trovato morto e portato all’obitorio. Tuttavia l’uomo non è davvero morto: benché non possa muoversi, la sua mente è ancora attiva: cerca così do capire come è finito in quella situazione e, attraverso una serie di flash back, scopriamo che Moore aveva una ragazza, Mira (Barbara Bach) che era scomparsa a un party e sulle cui tracce Moore si era lanciato, facendo una serie di scoperte importanti. (da Filmtv)

Lado esordisce con un’opera molto particolare e atipica per il filone nel quale si inserisce.
Bisogna infatti ricordare che l’anno precedente, 1970, uscì L’uccello dalle piume di cristallo, film d’esordio di Dario Argento che sconvolse la cinematografia italiana di genere, creando le basi di quello che sarebbe stato il giallo all’italiana nel corso del decennio dei ’70.
Nonostante molti dei topoi del genere fossero già presenti in alcuni film di Mario Bava, come La ragazza che sapeva troppo, Sei donne per l’assassino e il primo episodio di I tre volti della paura, fu il film di Argento, seguito dagli altri due capitoli della trilogia degli animali (Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio) a dare il via a un florido filone, chiamato “il filone degli animali”.

In questo contesto si inserisce La corta notte delle bambole di vetro.
Per prima cosa va detto che il titolo iniziale doveva essere Malastrana, il nome del quartiere di Praga in cui è ambientato il film, nonostante sia stato girato prevalentemente a Zagabria, ma non piacque ai produttori che optarono invece per La corta notte delle farfalle.
Fin dal titolo quindi si può notare la volontà di inserirsi all’interno del “filone degli animali”. Casualmente però, poco prima dell’uscita del film, arrivò al cinema una pellicola di Duccio Tessari intitolata Una farfalla con le ali insanguinate (anche questa sulla scia dei film di Argento), quindi Lado e i produttori si videro costretti a cambiare nuovamente il titolo, che divenne definitivamente La corta notte delle bambole di vetro.

Con ciò si capisce come un’analisi dell’opera d’esordio di Lado non possa prescindere da un confronto con i canoni imposti prima da Bava e poi sdoganati da Argento.

Partiamo quindi con ciò che si avvicina ai film di Argento, ovvero, essenzialmente, il fatto che l’indagine venga svolta non da un detective o da un poliziotto, bensì da una persona comune che è stata coinvolta casualmente nella vicenda.
Tuttavia, già dal punto di partenza La corta notte delle bambole di vetro si discosta dal modello argentiano, infatti la vicenda non prende le mosse da un omicidio ma dal ritrovamento di un corpo, quello del protagonista, che scopriamo essere ancora vivo ma paralizzato, senza che possa riuscire a farlo capire alle altre persone.
La storia procederà con una serie di flashback, attraverso i quali il protagonista cerca di capire come mai si trovi in quella inspiegabile situazione.
Come se non bastasse, per il primo omicidio bisogna aspettare più di metà film.

Lado si discosta immediatamente dall’estetizzazione e la spettacolarizzazione della morte e dell’omicidio che hanno reso celebri le opere di Argento. Non è interessato a rappresentare la morte né al creare la tensione del pre-omicidio come avviene nella Trilogia degli animali.

Piuttosto, cerca di creare un’atmosfera cupa e malsana, sospesa tra la realtà e il mondo onirico, che accompagna lo spettatore dalla prima scena fino alla conclusione.
La corta notte delle bambole di vetro sembra guardare, più che a Bava e Argento, a un’altra trilogia, quella dell’appartamento di Roman Polanski. Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano e prima di loro Repulsion hanno messo le basi per molti degli horror da fine anni ’60 in poi e il film di Lado non fa eccezione.
L’esoterismo, la continua tensione tra follia paranoica dei protagonisti e l’esistenza di un complotto ordito da società occulte o ancora, a livello tecnico, il grande utilizzo del grandangolo per deformare gli spazi e i volti, in modo da restituire lo stato mentale alterato dei personaggi e infine le incursioni del mondo onirico che si confonde sempre di più con la realtà.

Se da una parte è innegabile l’influenza di Polanski, dall’altra, come sottolineato dallo stesso regista, si avverte anche un’atmosfera kafkiana, non a caso la storia è ambientata in una cupa Praga.

Ricapitolando: niente assassino (e con ciò vengono meno i topoi quali i guanti neri, le soggettive dell’omicida e via dicendo) e poco interesse verso il momento dell’omicidio e l’estetizzazione della violenza.

Anche a livello tematico Lado si allontana dal modello di Argento.
Si pensi in primo luogo a chi sono gli assassini nella Trilogia degli animali ma anche in Profondo rosso.
Se fino ad allora, nei gialli all’italiana, gli omicidi venivano commessi per motivazioni razionali come delitti passionali o motivati dal denaro, Argento ha introdotto l’elemento della follia, l’irrazionalità dell’omicidio.
I suoi assassini in poche parole sono pazzi o hanno subito dei traumi che li hanno portati ad agire così.
Sulla scia di Psycho, l’assassino diventa ancora più spaventoso proprio perché non mosso da delle motivazioni logiche e razionali, bensì dalla follia.
A ciò si affianca un’indagine da parte del regista sull’efficacia e la veridicità della visione: quanto il senso della vista è affidabile e quanto invece è fallace. E soprattutto il gioco sui punti di vista, lo spettatore che guarda dagli occhi dell’assassino e l’omicidio che diventa un’opera d’arte, esteticamente piacevole.
Queste sono le ossessioni del regista che, prendendo le mosse da capolavori quali Blow Up di Antonioni e Peeping Tom- L’occhio che uccide, ha riflettuto sulle varie declinazioni della visione e dell’essere spettatori.

Lado invece, fin dal suo esordio, si è dimostrato molto più interessato a tematiche sociali, più che psicologiche e filosofiche, infondendo nelle sue opere un sentimento post-sessantottino di avversione verso un certo tipo di borghesia pulita di facciata ma che nasconde il suo vero volto.

Se dovessimo cercare un filo conduttore nei quattro film del regista di cui parleremo, sicuramente questo sarebbe il fatto che le vittime sono sempre giovani e i carnefici sono sempre vecchi, perché l’antico ha bisogno del sangue del giovane, di ciò che è nuovo, per poter andare avanti e prosperare.

La corta notte delle bambole di vetro è sicuramente il film di Lado in cui questo concetto viene maggiormente esplicitato, tanto che è il vero cuore tematico.

Stando a un’intervista, il regista ha sottolineato come l’idea di base fosse nata dal clima di tensione che si respirava in quegli anni in Italia, in cui “quando un giudice cercava di mettersi contro alle istituzioni […] veniva preso e sepolto vivo in fondo alla Sicilia o in fondo alla Sardegna, cioè veniva tolto dal posto dove operava”[1]. Allo stesso modo nel film, il Club dei 99, che rappresenta chi detiene il potere, paralizza e seppellisce chiunque cerchi di avvicinarsi alla verità.

Inoltre, come dicevo precedentemente, le vittime sono soprattutto giovani. Quando viene spiegato che tutte le vittime erano accomunate dal fatto di ascoltare la musica, quella dei giovani, è chiaro il riferimento alla generazione del sessantotto, portatrice di nuovi valori e ideali che si scontravano con quelli del potere, retrogrado e conservatore, al quale, chiaramente, queste nuove idee non andavano bene.
Come se non bastasse, sempre rifacendosi all’intervista a Lado, il modo in cui il vecchio mantiene il potere è proprio attraverso il sangue del giovane.
Il film è uscito nel periodo della guerra fredda, in particolare in quello della guerra in Vietnam, che aveva portato a molte manifestazioni giovanili di dissenso e le guerre sono sempre combattute dai giovani che versano il loro sangue per ordine di chi detiene il potere.

Tutto ciò si manifesta nel film nella scena dell’orgia finale, in cui i membri del Club dei 99, tutti anziani, abusano dei giovani e addirittura ne bevono il sangue come fossero dei vampiri.
La scena in questione, dal fortissimo impatto visivo e simbolico, merito anche della fotografia di Giuseppe Ruzzolini, anticipa di anni quello che poi verrà mostrato, in chiave più body horror e visivamente ripugnante, da Brian Yuzna nello splendido Society- The Horror del 1989.

Già al suo esordio Lado tocca uno dei vertici della sua carriera con un film atipico all’interno della cinematografia italiana di genere, diventato negli anni un cult, merito anche della notevole colonna sonora di Ennio Morricone, che collaborerà col regista in molte delle sue pellicole.

 

Scritto da: Tomàs Avila.

 

Continua…

 

Note:

[1] https://www.youtube.com/watch?v=GIc5xOMBuXs&t=2s