Regia: Matteo Rovere.
Soggetto: Filippo Gravino, Francesca Manieri, Matteo Rovere.
Sceneggiatura: Filippo Gravino, Francesca Manieri, Matteo Rovere.
Colonna sonora: Andrea Farri.
Direttore della fotografia: Daniele Ciprì.
Montaggio: Gianni Vezzosi.
Produttore: Groenlandia, Rai Cinema, Gapbusters, VOO, BeTV, Roman Citizen Entertainment, Casa Kafka Pictures, Belfius, Regione Lazio, Belgische Taxshelter voor Filmfinanciering, European Union, Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC).
Anno: 2019.
Durata: 123′.
Paese: Italia, Belgio.
Interpreti e personaggi: Alessandro Borghi (Remo), Alessio Lapice (Romolo), Fabrizio Rongione (Lars), Massimiliano Rossi (Tefarie), Tania Garribba (Satnei).
Dopo Veloce come il vento, Matteo Rovere, torna con un film ancora più interessante rispetto al precedente, almeno sulla carta.
Romolo e Remo sono due gemelli che vivono sulle rive del Tevere. Soli, nell’uno la forza dell’altro, in un mondo antico e ostile sfideranno il volere implacabile degli Dei. Dal loro sangue nascerà una città, Roma, il più grande impero che la Storia ricordi. Il loro sarà un legame fortissimo, destinato a diventare leggenda. (da FilmTv)
Si è ormai diffusa la tendenza ad abusare del termine “capolavoro” e ad accogliere con entusiasmo incontrollato qualsiasi prodotto italiano che tenti di offrire un’alternativa alle tradizionali produzioni di cui il cinema italiano campa da anni, ovvero prevalentemente drammi e commedie.
Abbiamo visto il ritorno dell’horror con The End- L’inferno fuori di Daniele Misischia, cocente delusione, come abbiamo spiegato in questo articolo, e con lo splendido Suspiria di Luca Guadagnino.
Grazie a Mainetti abbiamo il nostro supereroe nazionale, Sollima si è specializzato dei thriller-action e ormai è stato adocchiato dalla macchina produttiva di Hollywood, come abbiamo visto con Soldado.
Bene, come dicevamo, ormai siamo abituati a sentir tessere le lodi a qualsiasi film italiano “fuori dagli schemi” che arriva sul grande schermo. Lo stesso discorso vale anche questa volta per l’ultima fatica di Rovere.
Premesso che, va detto, bisogna sempre riconoscere a questi film e ai loro autori il merito di aver osato e aver tentato di ridare vita a un certo cinema di genere, non si può tuttavia cessare di essere obiettivi nel giudicarli.
Come Misischia aveva tentato di riportare in voga l’horror, genere a cui l’Italia ha dato moltissimo tra gli anni ’60 e gli ’80, così Rovere cerca di rivisitare un altro dei generi per i quali è celebre il cinema italiano degli anni che furono: il peplum, il kolossal storico, spesso con ambientazione romana o greca.
L’operazione di Rovere era interessante sulla carta: rivitalizzare uno dei generi fondamentali del cinema italiano, in una chiave più realistica e cruda, più o meno come fece Nolan con i cinecomic.
I punti di riferimento del regista sono fin troppo palesi: lo splendido Apocalypto di Mel Gibson (e volendo anche La passione di Cristo), l’altrettanto riuscito Valhalla Rising di Nicolas Winding Refn e il più recente, e decisamente meno meritevole, The Revenant di Iñárritu.
Da Gibson vengono ripresi l’utilizzo della lingua parlata nel periodo in cui si svolge la vicenda, in questo caso il proto-latino, e l’esibizione di una violenza al limite dello splatter. Di Refn ritroviamo, ancora, le esplosioni di violenza e i toni molto cupi e antispettacolari. Il film di Iñárritu infine ha sicuramente influenzato Rovere nella scelta della fotografia, che predilige l’illuminazione naturale (bisognerebbe citare quindi anche Nuovo Mondo di Malick).
Il risultato è un film che non cerca di ricalcare la spettacolarità fittizia dei peplum italiani, caratterizzati dalle sontuose ambientazioni e dalla grandezza e la pomposità della messa in scena, il che senz’altro è una scelta interessante. Non fosse che, insieme alla spettacolarità, viene meno anche l’epica, cosa che non accadeva, per esempio, in Valhalla Rising, lasciando posto alla noia e a una storia che, a parte un incipit interessante, risulta poco avvincente e stereotipata.
La storia è quella di Romolo e Remo e della fondazione di Roma ma rivista da Rovere, Filippo Gravino e Francesca Manieri (tutti e tre sceneggiatori) che si concentrano sul rapporto e il conflitto tra i due fratelli, simboli di due modi di intendere il potere: come sottomissione del prossimo o come comunità.
Si racconta il passaggio dal mondo primitivo alla società e le ambizioni del regista sono fin troppo evidenti e ingombranti, per quello che è il risultato finale.
L’idea è quella di un regista che cerca a tutti i costi di realizzare un film d’autore, concentrandosi molto meno sulla parte d’intrattenimento, comunque necessaria in un prodotto del genere.
Dimentichiamoci quindi gli spettacolari combattimenti di 300, che hanno fatto scuola, o l’epicità di Apocalypto.
Le scene d’azione de Il primo Re, a dire il vero, non sono tutte da buttare. Anzi, alcune sono ben realizzate e si apprezza il fatto che Rovere non si sia limitato in quanto a splatter. Altre tuttavia sono al limite del ridicolo involontario: Borghi che emerge improvvisamente da sotto terra come Aldo Baglio in Tre uomini e una gamba o il terribile utilizzo delle riprese aeree nel combattimento finale.
Rovere dimostra quindi di non avere il senso per l’azione che ha, per restare tra i connazionali, un regista come Sollima.
Dispiace poi dover criticare anche la fotografia di Daniele Ciprì, regista (insieme a Francesco Maresco) di Totò che visse due volte.
L’utilizzo massiccio della nebbia e delle luci naturali anche nelle scene più buie, rendono troppo scure e poco visibile certe inquadrature; non aiuta una color correction con colori troppo marcatamente desaturati.
Infine, a non funzionare è anche la sceneggiatura, tra personaggi che mutano troppo improvvisamente, senza apparenti ragioni, e un ritmo estremamente discostante.
È un peccato dirlo ma Il primo Re è una grande delusione, come se non più di The End- L’inferno fuori.
Scritto da: Tomàs Avila.