Analisi Il Buio oltre la siepe

In Analisi film, Cinema, Martina Meschini by Martina MeschiniLeave a Comment

Condividi:
Share

Alabama,1932: Atticus Finch, rispettabile e rispettato avvocato, conduce un’esistenza pacifica con i suoi due figli Jem e Scout che hanno perso la madre da piccoli; le loro giornate si compongono di giochi, nuove amicizie e qualche birbanteria, compresa la caccia al mistero di Arthur “Boo” Radley, un vicino additato da tutti come psicolabile che vive nella casa maledetta.

L’equilibrio della piccolo paese è scosso però da uno scandalo: Bob Ewell, ubriacone del villaggio, denuncia Tom Robinson, un nero, per avergli violentato la figlia. Alla difesa di quest’ultimo viene chiamato proprio Atticus che, pur dimostrando in udienza l’innocenza dell’imputato, deve scontrarsi con l’ostilità del popolo e della giuria e assistere impotente alla condanna di Robinson.

9568678_orig

 

Una scelta bizzarra quella di tradurre il titolo originale del libro di Harper Lee, To Kill a Mockinbird, per l’edizione italiana con Il buio oltre la siepe. Una scelta che, tuttavia, non fu nemmeno così inesatta considerando che il duplice titolo assume in questo modo due significati ben precisi ed entrambi molto validi.

To Kill a Mockinbird, letteralmente “uccidere un usignolo”, è una frase che sia nel romanzo della Lee che nel film viene ripresa in più occasioni: quando Atticus racconta al figlio Jem che quando era piccolo suo padre gli regalò un fucile e gli disse che poteva sparare contro qualsiasi volatile tranne che a un usignolo, perché considerato una creatura innocente e che non dà fastidio a nessuno e quando sul finale la piccola Scout paragona il presunto mostro Boo a un usignolo, a causa della sua timidezza.

La traduzione italiana invece, Il buio oltre la siepe, è il sunto perfetto della vicenda che scuote la piccola cittadina dove vivono Atticus e i suoi due figli. Riprendendo una frase tradotta, seppur non in maniera letterale, dal romanzo stesso che nel film la voce narrante fuori campo di Scout adulta pronuncia poco prima dei titoli di coda, vi ritroviamo un riferimento esplicito alla paura di attraversare la siepe del vicino di casa, quella del presunto mostro Boo per la precisione; rivelatosi poi un essere più che buono e innocente, con la sola colpa addosso d’essere diverso, l’episodio di Boo rappresenta come ogni piccola diversità, nonostante l’innato timore che si prova per il “buio oltre la siepe” (che indica simbolicamente l’ignoto che si cela dietro casa) è un mistero da risolvere, e in tal modo anche il “diverso” è un campo d’indagine che va scoperto sotto un’altra luce, che, come insegna il padre Atticus, non si ferma mai al primo giudizio. Motivo per cui i tre piccoli protagonisti non si trattengono dallo scrutare attraverso la porta vetrata della casa maledetta, che rappresenta idealmente, proprio quella linea da varcare cui si faceva cenno sopra.

To-Kill-a-Mockingbird-006

Nonostante io non abbia letto il romanzo, fonti ben più informate di me riferiscono che le differenze tra questi e la pellicola non sono significative: nel film manca giusto il personaggio della zia Alexandra, la parte che mostra la morte della signora Dubose, la vecchia scorbutica che fa una breve comparsa all’inizio del film, e i personaggi della zia di Dill, Rachel, e di Stephanie Crawford, per questioni logistiche deduco, sono stati fusi in un unico personaggio.

Del resto Harper Lee, recentemente scomparsa, dichiarò in più occasioni di potersi ritenere molto soddisfatta della pellicola di Robert Mulligan, così come l’Academy d’altronde, che decise di premiare il film con ben 3 Oscar (Miglior attore protagonista, Miglior sceneggiatura originale e Miglior scenografia). Inoltre proprio la figura di Atticus Finch, sullo schermo e nel libro dipinto come un uomo che vive educando i suoi figli secondo saldi principi di moralità e tolleranza, diviene paladino della giustizia e dell’uguaglianza razziale, rendendosi sempre più conto dell’ignoranza e della difficoltà della gente ad aprirsi gli uni con agli altri e a giudicare il prossimo senza cadere in facili pregiudizi, la quale non è altro che l’essenza stessa del razzismo.

694008

Il personaggio di Atticus Finch viene magistralmente portato su schermo da Gregory Peck (sì signorine, il tipo che vagabonda con Audrey Hepburn per Roma in sella a una Vespa in Vacanze romane è proprio lui), ruolo che si instaurò prepotentemente nella memoria collettiva di ciascuno di noi tanto da guadagnarsi la nomina a più grande eroe del XX secolo dall’American Film Institute.

Dopotutto Atticus Finch è la gemma della comunità, colui che parte dalla parola come mezzo del vivere civile e ne fa il suo lavoro ma non solo, ne fa un credo: la parola è la protagonista di questa vicenda, è l’elemento sanatorio delle istituzioni ed è, banalmente, l’unico mezzo di distingue l’uomo dalla bestia.

La parola è usata soprattutto per risolvere i contrasti familiari: il dialogo riconciliante riporta l’equilibrio fra le parti, così come avviene nei momenti di tensione fra Scuot, irriverente e spesso incline a risolvere le cose in maniera più “violenta” durante i battibecchi con i suoi compagni di scuola e il padre.

In questa vicenda però, nemmeno la parola riesce a scacciare il pregiudizio: il monologo di Atticus durante il processo è memorabile ma nulla può contro la sentenza data da una società che si è fatta strada col sangue e che soffre ancora di incontestabili assiomi sulla razza, radicati da sempre nelle credenze rustiche.

In mezzo a tanto spettacolo di squallore e povertà però alla fine trionfa il bene, l’amicizia impossibile e l’amore paterno in un impensabile, impossibile ma indispensabile happy ending: come si vedrà in due momenti molto significativi della vicenda alla fine si dovrà ricorrere, malgrado il ripudio della violenza insegnato ai figli, alla maniera forte e dunque all’estirpamento della mela marcia, che però porta inevitabilmente dell’altro marcio con sé.

A questo proposito si ricollegano infatti due metafore animali del film: quella del titolo originale, come è già stato specificato sopra, dove l’usignolo può essere un Tom Robinson o il vicino Boo, innocui personaggi che possono fare solo del bene e la cui uccisione sarebbe un delitto doppiamente grave; e quella del cane randagio affetto da rabbia, abbattuto da Atticus, un essere pericoloso per gli altri ma incolpevole, proprio come Bob Ewell capace, nella sua condizione, solo di fomentare il cieco odio.

La piccola provincia, invece, è una sineddoche: essa sta in rappresentanza di una condizione presente in una grossa fetta degli States, gonfia di odio razziale, schiavitù, pregiudizio e ignoranza generalizzata.

Pare infatti che il nucleo fondante del romanzo provenga da una vicenda che aveva turbato la signora Lee nella sua infanzia, più precisamente i processi di Scottsboro del 1931: durante quei dibattiti, nove ragazzi di colore furono accusati di stupro da una donna, che si era inventata la cosa per non essere a sua volta condannata.

Con ciò, la lezione più grande che la Lee ci vuole trasmettere, attraverso la figura di Atticus, è soprattutto che rispondere con la violenza alle prevaricazioni e alle provocazioni di una collettività pronta addirittura a sparare a un usignolo, è meglio controbattere con lo sguardo puro di un bambino e rimuovere lo sporco con una carezza, perché la violenza non può che portare con sé altra violenza.

A sovrastare la comunque ottima seppur sobria e lineare regia di Mulligan che mai appesantisce la narrazione, si segnalano le indimenticabili interpretazioni: oltre la già citata prova – premiata con l’Oscar – di Gregory Peck, rimasto nei cuori dei fan in giacca, cravatta e occhiali, si ricordano con piacere le strepitose performance dei giovanissimi attori, specie Mary Badham e un tenerissimo John Megna, che farà altre comparse in pellicole dell’epoca.

Come non citare poi il lavoro di Horton Foote, anch’egli premiato giustamente con l’Oscar, cui va il merito di aver sceneggiato un romanzo già di successo puntando sulla doppia tematica del razzismo e delle inquietudini infantili, conservando la portata rivoluzionaria e scomoda del contenuto. La penna sensibile e vivace di Foote consente di meditare sull’umana incoerenza, in una società che maschera il suo razzismo senza affrontarlo.

C_54_eventoCorrelato_3352_img_std

In conclusione Il buio oltre la siepe è un film di formazione, fortemente educativo, con una memorabile fotografia bianco/nera di Russell Harlan tra le migliori del decennio, una scelta particolarmente significativa in un periodo in cui si erano già abbastanza affermati i colori, che sta a indicare, banalmente, la netta diversità, il bianco e il nero, due schieramenti senza sfumatura alcuna, modi di pensare, lati antitetici ed equivalenti di una stessa fisicità.

Scritto da: Molly Jensen

 

(Forse) non tutti sanno che: 

  • Il personaggio di Dill, il ragazzo compagno di giochi dei due protagonisti, si richiama allo scrittore Truman Capote amico d’infanzia dell’autrice e che la spinse a raccontare in un libro, in forma romanzata, gli episodi della loro adolescenza.
  • Il padre di Harper Lee, anch’egli avvocato, che si tende a identificare con il personaggio di Atticus, era in realtà di idee segregazioniste.
  • Nel 2001, Richard M Daley, l’allora sindaco di Chicago, consigliò ai suoi concittadini la lettura del libro, di cui fece acquistare numerose copie da distribuire nelle biblioteche.
  • La scelta di Gregory Peck per il ruolo di Atticus Finch fu approvata fin da subito dalla Lee, la quale aveva modellato il personaggio di Atticus sulla figura del proprio padre, descrivendolo come un uomo di saldi principi morali, amabile, tenero e affettuoso con i bambini, onesto e risoluto nella professione. Tuttavia le scelte iniziali caddero su James Steward ma questi rifiutò la parte giudicando il film “troppo liberal”.
  • L’attrice Mary Badham interprete di Scout, è la sorella del regista John Badham e rimase legata da stretta amicizia con Gregory Peck fino alla morte di lui, avvenuta nel 2003, continuando a chiamarlo familiarmente “Atticus”, così come faceva Scout nel film.
  • Un giovanissimo Robert Duvall recitò nella parte dell’eremita incompreso Arthur “Boo” Radley: per questa parte l’attore dovette stare al completo riparo dal sole per sei settimane.