Oltre il Muro

In Musica, Tancredi by scheggedivetroLeave a Comment

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Should we shout or should we scream?
“What happened to the post war dream?”
Oh Maggie, Maggie what have we done?

­The Post War Dream, Roger Waters

L’anno è il 1982 e in Inghilterra si respira un’aria di “vittoria” per aver difeso con successo le isole Falkland dalla minaccia argentina. La guerra, fortemente voluta dal PM Margaret Thatcher, costa più di 200 vite al paese di Sua Maestà (oltre che milioni di sterline), troppe per un conflitto puramente di facciata volto a mantenere il controllo su un pugno di isole abitate in gran parte da pecore e pastori.
La vicenda tocca nel profondo l’animo di Roger Waters, ormai indiscusso leader di una delle band, seppur già da qualche tempo destinata al declino, più in vista dell’epoca: i Pink Floyd.
Così come la guerra, anche il successo di The Wall (1979) aveva avuto un costo molto caro: i rapporti tra i membri della band si erano definitivamente incrinati e ciò portò al licenziamento del tastierista Richard Wright da parte dello stesso Waters, mentre i due rimanenti membri si vedevano retrocessi a semplici esecutori della musica che ormai era diventato monopolio esclusivo del bassista.

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Se per molti de facto la discografia dei Floyd si chiude con il doppio LP che proprio nel ’82 sarà tramutato in film da Alan Parker, tuttavia non si può ignorare la grazia stilistica e la profondità concettuale del dodicesimo album in studio The Final Cut, che non ha nulla da invidiare al suo più fortunato predecessore.
Certamente, a The Wall si riconosce il grandissimo merito (che The Final Cut evidentemente non ha) di aver riportato una ormai ex-prog band al successo, mischiando le proprie radici prog e psichedeliche con l’hard rock e la musica cantautorale, piuttosto che virare su un sound più pop ­­– dolorosa scelta per la quale gruppi come Yes e Genesis optarono per rimettersi in gioco, ormai rispettivamente senza le proprie figure trainanti di Wakeman e Gabriel.

The Final Cut di conseguenza raccoglie l’eredità stilistica di The Wall – assieme a qualche canzone scartata, ma anziché basarsi su un concetto universale come l’estraneazione dalla società, s’incentra su argomenti molto più vicini a Waters e alla sua vita personale, partendo dall’evento che più l’ha sconvolta, la morte del padre durante la battaglia di Anzio (1944), per poi arrivare ad interrogarsi sulla natura economica e sociale dei conflitti ancora in corso durante il periodo della Guerra Fredda, avendo reso inutile il sacrificio di molti che avevano combattuto per un assetto mondiale pacifico.
Il disco, come lo stesso Waters lo descriverà, sarà un requiem, un ultimo saluto al “sogno del dopoguerra” e il titolo The Final Cut è emblematico, riferendosi in maniera volutamente ambigua sia all’ultimo stadio di lavorazione di una pellicola che, come poi nella title-track verrà inteso, alla coltellata finale sferrata alle spalle, simboleggiando il tradimento definitivo di quel sogno che aveva attraversato le speranze di molti.

Come si può facilmente intendere, l’atmosfera dell’album risulta sin dal primo brano, di cui ho proposto gli ultimi tre versi in apertura, cupa e negativa, ma di una cupezza diversa rispetto a quella già presente su The Wall, che è più un movimento ciclico di alti e bassi destinato a ripetersi in eterno. Qui piuttosto, ogni canzone si pone come un’amara considerazione su vari sentimenti umani quali la paranoia, tema caro alla band almeno da The Dark Side of the Moon (1973), soffermandosi in particolare sul dramma dei reduci di guerra, il cui dolore raggiunge anche le persone più vicine a loro, specialmente i familiari.

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Brežnev took Afghanistan
Begin took Beirut
Galtieri took the Union Jack
And Maggie over lunch one day
Took a cruiser with all hands
Apparently to make him give it back.

Get Your Filthy Hands off my Desert

Durante il corso dell’album, il personaggio di Eric Fletcher Waters rivive la sua vicenda prima nelle vesti di un anonimo artigliere (cfr. The Gunner’s Dream), per dimostrare che quel particolare desiderio di pace e tregua era condiviso da tutti i soldati, e in seguito si vede intitolare a suo nome un fittizio centro di ricovero per “incurabili tiranni e re”. È proprio nella “Fletcher Memorial Home” (cfr. omonima canzone) che ha luogo una grottesca sfilata cui prende parte una serie di uomini potenti dell’epoca.
Tra le figure prominenti (oltre alla combriccola di individui già citati in Get Your Filthy Hands off my Desert, motivetto che funge da prologo a questo pezzo centrale per l’intero disco) vi è anche Ronald Reagan, che porta con sé “il fantasma di McCarthy e i ricordi di Nixon”.

Nel pezzo successivo, Southampton Dock, vi è un parallelismo tra il ’45, anno in cui tornarono dalla guerra le decimate milizie composte di soldati seri e disillusi, e il presente, durante il quale dallo stesso molo un’altra generazione di valorosi militari è pronta a salpare alla volta delle Falkland. È qui che avviene un’infelice messinscena: una donna, probabilmente la stessa Thatcher, saluta con un fazzoletto in direzione delle navi che si allontanano. Il tradimento è così portato definitivamente a termine.

When the fight was over
We spent what they had made
But in the bottom of our hearts
We felt the final cut.

La figura di Waters che emerge dalla traccia che dà il nome all’album è molto fragile, persa e profondamente paranoica, rappresentando infatti una persona che dopo tanti anni non è ancora riuscita a fare i conti con il proprio passato e a scacciare i propri fantasmi, rimasti saldamente ancorati alla sua vita e che ancora hanno potere decisionale in merito ad essa.
In Not Now John troviamo per la prima e ultima volta nel disco la voce di Gilmour, a cui viene gentilmente concesso di interpretare la parte di un pazzoide schizofrenico che trova la risposta ai problemi nel razzismo e nella xenofobia, essendo vittima di quel sistema che aveva spostato la produzione navale dalle sponde del fiume Clyde in Scozia al Giappone (cfr. traccia d’apertura). Egli vuole a tutti i costi portare avanti la competizione con i rivali nipponici, e per questo continua imperterrito a gridare “Non ora John, dobbiamo andare avanti con lo show”, difficile non notare “inquietanti” somiglianze con la breve traccia The Show Must Go On presente su The Wall.

high-hopes-pink-floyd-293613Se tutto l’album è strettamente legato al passato, lo stesso non si può dire dell’ultima traccia, che marcherà non solo il congedo all’album ma addirittura chiuderà la parentesi floydiana di Waters, che lascerà la band immediatamente dopo l’uscita del disco. Two Suns in the Sunset è una canzone fortemente proiettata verso il futuro, un futuro tuttavia senza speranza su cui incombe un’imminente catastrofe, data dalla presenza di un secondo sole artificiale nel cielo, presagio di morte. Alla fine rimane una sola constatazione: la storia è decisa dai potenti, mentre agli altri non rimane che guardare le conseguenze catastrofiche cui quelle scelte hanno portato.

And the windshield melts
And my tears evaporate
Leaving only charcoal to defend
Finally I understand the feelings of the few
Ashes and diamonds
Foe and friends
We were all equal in the end.

Improvvisamente tutto sembra sciogliersi e il mondo finire in una sorta di “olocausto nucleare”. Ironicamente, anche se è molto meno spettacolare e poetica, una stessa fine spetta alla band, che rimarrà orfana della mente che aveva partorito cinque dei più splendidi concept album mai forgiati da mente umana. Altri dischi saranno pubblicati dal rimanente trio e parallelamente da Waters, ormai definitivamente in proprio, ma da quel 1983 nessuno dei quattro sarà più in grado di comporre qualcosa ai livelli di quelle cinque meraviglie e della discografia antecedente ad essi.
Tutto ciò è sintomo che quel verso di Hey You che recitava “Insieme restiamo in piedi, divisi cadiamo” in fondo non era stato compreso appieno nemmeno dai propri autori, che ritenennero saggio ignorare il loro stesso auto-avvertimento.