Se fortunatamente sono molti gli artisti che sono riusciti a portare a compimento due o tre album validi, tra i quali magari spicca un disco che è anche passato alla storia come una “pietra miliare”, generalmente il potenziale artistico di una band, di un cantautore o di un rocker si esaurisce entro il quinto disco, ammesso che l’autore riesca a sopravvivere a tale obiettivo e che non si spenga prima (sia fisicamente che artisticamente). Non a caso, le varie raccolte che le case discografiche propongono sugli scaffali dei negozi sono usualmente composte da 3 o, per i gruppi più longevi e di successo, da 5 album: “original series” o “classic series” contengono spesso le prime fortunose uscite dell’artista preso in considerazione.
Per un personaggio del calibro di Bruce Springsteen, accompagnato inoltre da una compagine di musicisti da fare invidia a chiunque, arrivare al doppio The River senza perdere un solo colpo è stato un gioco da ragazzi, pur ricordando gli ostacoli di percorso incontrati tra mancanza di soldi, cavilli legali e periodi di ipercreatività che costringevano il frontman della E Street Band a scegliere quali delle 70 canzoni composte sarebbero dovute finire sul disco.
Così, con alle spalle sette anni “di contributi” (che ammontano a quindici se si contano anche le prime band di cui fece parte), nel 1982 Springsteen si trova di fronte a un grosso enigma: continuare a fare quel che aveva sempre fatto, rischiando di ripetersi, oppure lanciarsi in un progetto completamente nuovo, giocandosi il proprio successo, i propri soldi (che nel frattempo cominciavano ad arrivare), ma soprattutto la fedeltà dei fan.
Scegliendo la strada della rottura tematico-musicale con la produzione precedente, senza rinnegare tuttavia le proprie origini, Nebraska, il sesto album, venne alla luce da un registratore a nastro a quattro piste, dal quale fu ricavata una cassetta che con non poco sforzo fu trasferita su vinile.
Voce, chitarra acustica, armonica, e un quarto strumento a scelta tra basso acustico e seconda voce: niente di più, se non la disapprovazione della Columbia, che pregustandosi già una serie di hit rock’n’roll pubblicò con gran riluttanza 10 canzoni asciutte, che raccontavano vicende colme di morte, dolore e ingiustizia.
Un vero colpo basso a un’industria discografica che, all’inizio degli anni Ottanta, accontentava molto volentieri un pubblico avido di singoli orecchiabili e disimpegnati, che avrebbero poi finito per nausearlo dopo qualche mese di ascolti continui e martellanti.
Parafrasando Boris Yellnikoff in Basta che Funzioni, Nebraska non è di certo un disco da “oh quanto mi sento bene”. Influenzato e ispirato da scrittrici come Flannery O’Connor e da poeti della musica folk americana come Woody Guthrie, l’ormai trentatreenne di Freehold, New Jersey abbandona il sogno americano, ormai definitivamente infranto (come già si percepiva in canzoni come Racing in the Street) e se prima le storie avevano un lieto fine ora i protagonisti sono destinati a rimanere dei disadattati all’interno di una società americana che non sono più capaci di comprendere. Per loro non può esserci un lieto fine, ciò che spetta loro è solo sciagura, miseria e contrizione.
Springsteen ha in maniera implicita non pochi risentimenti nei confronti della società voluta da Ronald Reagan, che cercava di emarginare i più deboli etichettandoli come “scansafatiche”. Questa lotta fra l’ideatore della Reaganomics, l’affossatore del welfare e il nuovo pioniere della classe operaia s’inasprì notevolmente quando nel 1984 Reagan tentò di utilizzare Born in the USA (title-track dell’album successivo, il settimo) come inno della sua campagna elettorale, fraintendendo completamente il suo significato anti-militaristico e anti-panamericano.
I temi centrali del disco, bollato come anti-moderno all’epoca ma che potrebbe essere ancora adesso considerato attuale, sono i delitti e le conseguenti condanne e la traccia titolo è l’emblema della critica al sistema giuridico americano, ancora incentrato sulla pena di morte come punizione più giusta per i crimini più feroci, come se il Dei Delitti e delle Pene di Cesare Beccaria non fosse mai stato scritto.
Vengono descritti paesaggi desolati come il Nebraska, appunto, o la decadente Atlantic City, posti vuoti come le stesse anime dei condannati, cui non vengono nemmeno spiegate le atrocità da loro commesse, permettendo loro in questo modo di poter reiterare gli stessi comportamenti non appena usciti di galera.
Esattamente ciò che succede a Frankie in Highway Petrolman. Fratello reduce del Vietnam di un poliziotto della statale, proprio a causa della omertà e della poca perseveranza educativa di quest’ultimo, dopo bravate sempre più gravi arriverà a colpire a morte un ragazzo, vedendosi di conseguenza costretto a riparare in Canada.
Seppure l’album non fu certo un successo commerciale come le uscite passate, chi vinse la scommessa iniziale fu con grande sorpresa proprio Springsteen: i fan e la critica accolsero Nebraska molto positivamente, decantando la completezza artistica del suo autore, che inconsapevolmente si trovava al picco della propria maturità compositiva.
All’interno della carriera di Springsteen altri due simili esperimenti artistici furono tentati e in parte riusciti nel 1995 e nel 2004, rispettivamente con l’uscita di The Ghost of Tom Joad e Devils & Dust, album che seguono il filone tematico di Nebraska, accompagnati dall’ormai fedele duo chitarra acustica e armonica a bocca che distingue il sound più orientato al folk del cantautore americano, il quale già nel 1972 fu decretato come il futuro re del rock’n’roll.