L’idea di intraprendere lo studio del percorso teorico e cinematografico di Maya Deren nasce dal desiderio di voler approfondire un discorso sul cinema come forma d’arte indipendente, libero dal “commercio dell’arte”. Per commercio dell’arte intendo un cinema che, inserendosi in qualità di prodotto nel circolo di produzione-distribuzione industriale, usufruisce dell’arte a fini economici e non propriamente artistici.
L’arte, per natura, è svincolata da qualsiasi tipo di commerciabilità: la sua purezza è raggiungibile esclusivamente dall’artista che, mediante i suoi strumenti, traduce i propri pensieri e le proprie esperienze emozionali in immagini, parole, suoni, dipinti, poemi, a seconda delle peculiari esigenze di animo e corpo. Filmare, scrivere, dipingere, dunque “creare”, sono atti che egli deve effettuare per se stesso e per coloro che sanno come ricevere il piacere di una poesia, una poesia da intendere, in senso metaforico come un momento in cui si realizza la capacità creatrice di un artista: l’amore per l’arte è ciò che Maya Deren ha voluto comunicare e che emerge nella sua distinzione tra artista “professional” e “amateur”[1], tra colui che svolge professionalmente il suo lavoro e colui che, invece, nella piena libertà artistica e fisica, realizza la sua opera per amore.
Nel trattare la poetica dereniana, ho cercato di mettere in luce tale aspetto che si evince nella capacità della filmmaker di creare una forma d’arte originale e completa.
Eleanora Derenkowsky nasce a Kiev il 29 aprile 1917, anno dello scoppio della rivoluzione russa: tale situazione determina il destino della filmmaker che, a soli sei anni, emigra negli Stati Uniti con la sua famiglia. La sua educazione non si radica nell’osservanza religiosa, ma nel culto della letteratura e della storia russa: i suoi genitori, Marie Fiedler e Solomon Derenkowsky, in quanto agnostici, ricercano, nel “Nuovo Mondo”, un ambiente culturale che, in quanto tale, è scevro da distinzioni di razza, sesso o altre discriminazioni. È proprio questo mondo dell’arte e dell’intelletto a mantenere sempre vivo, in Maya Deren, il desiderio artistico e la ricerca verso l’“altro” e l’“altrove”. È probabilmente tale senso di esplorazione ad avvicinare la cineasta allo studio delle culture “primitive”, in particolare di quella haitiana. È il senso di “passaggio”, di attraversamento, di evasione da un mondo reale e cruento, che la conduce all’enunciazione di una forma d’arte indipendente.
La peculiarità della filmmaker è aver creato un’estetica della pratica cinematografica, mediante la teorizzazione di un linguaggio, soggetto ad una continua raffinazione. La sua poesia si espande in un film poetico che muta nel cinema rituale, per poi ritornare alla scrittura. È l’evoluzione alla base del suo percorso artistico che spazia dalla poesia alla scrittura, dalla fotografia al teatro, dalla scienza alla psicoanalisi, dalla filosofia alla religione, dalle arti divinatorie alla magia, dalla musica alla danza, dalla cultura occidentale a quella orientale, dal cinema all’antropologia: è questo fattore culturale a renderla una cittadina del mondo.
Da tali considerazioni, emerge la concezione di una forma etica dell’arte: l’artista, come un abitante delle società primitive, deve perseguire l’obiettivo altruistico di creare oggetti d’arte spersonalizzati le cui funzioni ed i cui disegni devono aiutare l’“altro” nella comprensione della sua condizione sociale, così come accade nei rituali.
Deren giunge ad un cinema la cui forma è etica per essenza: un artista è in grado di controllare la sua audience, mediante la magia del mezzo. Proprio in virtù di tale potere, egli ha il dovere di creare una forma che non soddisfi esclusivamente i canoni estetici dell’arte, ma che risponda eticamente alle esigenze morali dell’individuo.
Si potrebbe dire che la bellezza è come uno specchio il quale riflette le immagini soggette allo scorrere del tempo: esso, nelle sue deformazioni e frantumazioni, vanifica la bellezza che, di per sé, è un fenomeno in continua metamorfosi. La bellezza muore, ma il valore morale permane nell’animo dell’uomo, illuminandone la sua condizione sociale.
Proprio nella società haitiana, Deren scopre un sistema d’integrazione in cui l’individualismo ed il dualismo si annullano nella collettività ed in quel “crocevia” che conduce ad una comunicazione totale tra due mondi: fisico e metafisico.
L’opera dereniana, in tal senso, va letta come “work in progress”: nella proiezione dei suoi film, si assiste ad una sorta di poema epico in evoluzione, in cui “ogni film è costruito come una stanza e diventa un corridoio, come una reazione a catena”[2].
Per esprimere il senso del divenire, Deren definisce i propri film come “i film di una donna”, la quale riesce a percepire l’aspetto formale del tempo, poiché dotata di una “forza di attesa”.
Il senso di attesa è innato in una donna: ella “deve attendere nove mesi per partorire un bambino[…]. Alleva un figlio non sapendo cosa sia in ogni singolo momento della sua esistenza, ma vedendo sempre la persona che diventerà”. Come donna, Deren concepisce i propri film come il progressivo divenire di un’immagine in un’altra, ponendo l’accento su ciò che accade e non su ciò che il film si rivela in ogni istante.
In tale ambito, si inserisce il discorso sul film Haitian Film Footage: tale filmato rimane incompleto, ma alcune immagini sono state montate dalla stessa filmmaker in un cortometraggio di due minuti, girato per una proiezione televisiva, ma poco conosciuto: CBS Odyssey. Inoltre, Teiji Ito e sua moglie Cheril Ito, con l’intento di ultimare il lavoro di Deren, montano alcune sequenze del filmato, dando vita ad un film con lo stesso nome del libro della cineasta: Divine Horsemen. The Living Gods of Haiti(1977). Nonostante il successo riscontrato, il lavoro dei coniugi non corrisponde minimamente all’idea originaria della filmmaker, poiché basato sullo stile dei reportages televisivi, in cui la voce del narratore predomina sulle immagini: è proprio tale contraddizione tra testo ed immagini, che Deren aveva cercato di evitare. Il suo filmato, lasciato allo scorrere del tempo, si completa nel ciclo della natura: pertanto, ho ritenuto definirlo “completo, pur nella sua incompletezza”.
Questo aspetto è stato oggetto di varie critiche da parte di coloro che hanno visto nell’ultima opera dereniana un affievolimento dell’iniziale filmmaking. Per contrastare tale opinione, bisogna tener presente il carattere “evolutivo” della filmmaker e la conseguente realizzazione di film “rituali”.
Da un punto di vista antropologico, un rito è una forma atta a spersonalizzare il partecipante, mediante il fenomeno della possessione. “La possessione è il divenire di un’identità. Non è la liberazione della propria identità. Non è un insieme di persone che si comporta stranamente, ma è la presenza degli dèi e la materializzazione di essenze divine, di energie divine e di idee divine”[3]. Come i rituali, i suoi film rendono possibile la spersonalizzazione dell’individuo il quale diviene parte integrante dell’evento filmico.
In ultimo, vi è la questione delle influenze avanguardistiche sull’opera dereniana. Il percorso della filmmaker va inserito nel contesto storico delle avanguardie europee emigrate in America. Questo punto è stato quello più dibattuto dai critici, come ad esempio Arthur Knight e P. A. Sitney che hanno considerato l’opera di Maya Deren come la prima manifestazione di un’avanguardia cinematografica statunitense[4]. Tali teorie, inoltre, sono confluite nell’espressione di Cecile Starr: “Maya: la Madre del Cinema d’Avanguardia”[5].
Alla luce di una mia breve intervista con Jonas Mekas, è emerso un aspetto che, in realtà, si distacca da tale concezione: egli precisa che la cineasta non dà inizio ad un nuovo periodo avanguardistico, piuttosto chiude il periodo europeo dell’Avanguardia americana.
La mia ricerca, ramificandosi nell’analisi delle influenze del simbolismo, del surrealismo ed infine della psicoanalisi e del sogno sull’opera dereniana, in particolare su Meshes of the Afternoon, confluisce sostanzialmente nel punto di vista di C. Boultenhouse.
L’originalità di Maya Deren risiede nella messa in opera di un cinema “mentale” che, scevro da improvvisazioni, traduce un’esperienza in una nuova realtà. È questo senso di costruzione scientifica del film il tratto distintivo della filmmaker.
Il silenzio dei suoi film riecheggia nell’animo dello spettatore, rendendolo capace di percepire i suoni delle immagini mute e di immergersi nella realtà del sogno: il “silenzio” trova la sua voce nel divenire delle immagini in bianco e nero, talora silenziose, talora accompagnate da una colonna sonora. Si può affermare, dunque, che l’opera dereniana ha avuto il merito di aver aumentato la comprensione e l’apprezzamento del cinema, attraverso l’introspezione immaginativa.
“I sogni sono essenzialmente silenzio: ella è riuscita a rappresentare la realtà del sogno, la realtà innata nel film”[6].
Scritto da: Elena Petrillo.
Bibliografia:
[1] M. Deren, Amateur Versus Professional, in Writings of Maya Deren and Ron Rice, Film Culture, n. 39, inverno, 1965, p. 45.
[2] M.Deren, Lettera a James Card, ibidem, p.31.
[3] M. Deren, in M. Kudláček, In the mirror of Maya Deren. A film by Martina Kudláček, ZEITGEIST VIDEO DVD, 2004.
[4] Cfr. Maureen Turim, The Ethics of Form, in B. NICHOLS(a cura di), Maya Deren and the American Avant-Garde, Berkeley, Los Angeles, London University of California Press, 2001, pp. 78-79.
[5] Ibidem/ibidem.
[6] Amos Vogel, in M. Kudláček, op. cit.