Intervista avvenuta presso l’A.F.A, ANTHOLOGY FILM ARCHIVES
New York City, 19 Novembre 2004.
Di Elena Petrillo.
PREMESSA
In occasione del mio soggiorno newyorkese, ho avuto la possibilità di intervistare e filmare l’autorevole Jonas Mekas[1]. Il 19 Novembre 2004, in una stanza stile avant-garde dell’Anthology Film Archives di New York City, ha avuto luogo la piacevole conversazione con J. Mekas le cui osservazioni hanno contribuito ad arricchire il mio lavoro di ricerca e di pensiero sulla filmmaker Maya Deren.
L’intervista, realizzata grazie all’aiuto del mio interprete Cosmo A. Frasca, si è articolata in base alla mia tesi originaria relativa al grado di influenza delle Avanguardie e della cultura Vudù sul filmmaking di Maya Deren. Partendo dall’analisi del termine “religione”, Jonas Mekas si è soffermato sugli influssi che le culture pre-colombiane e le Avanguardie, in particolare il Surrealismo, hanno avuto sull’opera dereniana.
Per una filmmaker come Maya Deren attenta al proprio contesto ed agli eventi che vi si svolgono, è inevitabile il coinvolgimento con l’“important crowd” delle Avanguardie, ossia con i gruppi avanguardistici europei che affollano i meandri newyorkesi. In prima analisi, a detta di Mekas, l’influenza del Surrealismo sul film Meshes of the Afternoon potrebbe trarre origine da Sasha Hammid. Considerando, tuttavia, che l’opera di Hammid non è da ritenersi propriamente surrealista, Mekas conviene con la mia ipotesi che probabilmente quell’aspetto “surreale” dereniano potrebbe essere ricondotto anche alla natura artistica della stessa filmmaker, al suo processo creativo ed alle esperienze che si riversano sul suo “filmmaking”.
Jonas Mekas, infine, racconta l’aneddoto del suo primo incontro con Maya Deren: tale incontro li unisce in una vera amicizia che prosegue oltre la precoce morte della cineasta, avvenuta il 13 ottobre del 1961.
INTERVISTA CON JONAS MEKAS
JM[2]: Di cosa tratta la tesi?
EP[3]: Essa analizza due temi: il rapporto che intercorre tra Maya Deren e la religione, e l’uso da parte della filmmaker di alcuni leitmotiv[4] del Surrealismo e dell’Espressionismo.
JM: Sei già in possesso dei due volumi[5]?
EP: Certamente. Li ho acquistati proprio qui, appena arrivata.
JM: Il libro che tratta di Haiti[6] è ancora in corso di stampa e credo che la pubblicazione avverrà nel giro di alcuni mesi.
EP: Capisco.
Per iniziare, vorrei dirle che mi sento veramente piccola nel trovarmi di fronte a lei, cosicché non è semplice chiederle qualcosa di nuovo o di mai detto sull’argomento.
JM: Non importa se ripeti le vecchie domande. Non ci sono problemi.
EP: Inizio con il primo quesito: “Come Maya Deren ha percepito la “religione” prima e dopo l’influenza del Vudù e della cultura africana? Tutte queste nuove esperienze hanno prodotto un gran cambiamento per lei all’interno del cinema? Ella ha intrapreso un’altra direzione?
JM: Non abbiamo mai parlato di “religione”, ma io so, tenendo conto del materiale disponibile prima che si recasse ad Haiti, che parlava raramente di religione con i suoi amici. Tuttavia, ne è stata notevolmente coinvolta da Joseph Campbell[7]. Di sicuro, non si può parlare di “religione”; era piuttosto interessata alla mitologia, al rituale.
EP: Chiaramente alla cultura.
JM: Alla cultura in generale. Io so che in gioventù è rimasta coinvolta in un movimento socialista che di solito non si interessava di religione, una sorta di sinistra poco convinta dalla religione. Credo che iniziò ad interessarsene nel momento in cui incontrò Campbell. Sembra che proprio allora ne sia stata attratta: la religione invase la sua mente a tal punto da farle perdere quasi l’interesse per il cinema. Se si osservano le sequenze su Haiti, l’enfasi non verte più sul cinema. Si tratta piuttosto di una documentazione delle pratiche rituali religiose in Haiti. Non ha mai terminato il film, ma era già consumata dal Vudù. Ha scritto un libro.
EP: Quasi soffocata!
JM: Sì, sì. Il cinema era ormai in secondo piano. Era una persona molto intellettuale e quando si coinvolgeva, si coinvolgeva totalmente!
EP: Un’immersione!
JM: Immersione… Avrai la possibilità di trovare più materiale a riguardo sul volume di Haiti che, sfortunatamente, non è ancora disponibile.
EP: Sarà stampato presto?
JM: Non so, forse tra sei mesi. Tuttavia, l’interesse verso il Surrealismo ha indubbiamente preceduto questo periodo, poiché ella venne a contatto con tutta la New York surrealista, la “crowd important”, prima che andasse ad Haiti. Questa “folla” includeva non solo i surrealisti, perché Duchamp non era esattamente un surrealista, ma anche tutti i Francesi e Tedeschi esiliati a New York e negli Stati Uniti.
EP: Parliamo un po’ del Surrealismo allora.
JM: Questo argomento è sicuramente trattato nel libro… nel primo volume.
EP: A lei non piaceva essere etichettata.
JM: Non le piaceva affatto. Non le piaceva il termine “surrealista”. Credo ci sia un gran malinteso riguardo al fatto di sapere che a lei non piacesse tale termine, ma io penso in quella prospettiva. Molta gente dice che Maya Deren sia la “madre del cinema d’Avanguardia americano”. Per me, non è la madre, è l’ultima; ella chiude il periodo europeo nell’avanguardia americana. Ella chiude quel periodo. La nuova epoca inizia con Brakhage e molti altri. Ella non è l’inizio, è la fine. Inoltre, non amava il “Nuovo”, né cosa stesse accadendo nell’Avanguardia affatto. Non solo attaccò Brakhage, Gregory Markopoulos, Robert Frank in Pull my Daisy[8]. In pratica, è stata una continuazione: le sue radici vennero dall’avanguardia europea molto organizzata, pianificata. Così si trovano sicuramente elementi che possono essere tratti da altri… dalle prime opere surrealiste.
Il surrealismo molto probabilmente è nato da Alexander Hammid, poiché Meshes of the Afternoon è per lo più…, è molto di Hammid, poiché Maya era ancora al suo primo film. Proprio per tale motivo, non insisteva sulle sue idee: non era, credo, abbastanza forte da insistere sul suo proprio immaginario, su ciò che pensava, di conseguenza cedette ad Hammid. È molto probabile che il Surrealismo, proprio per tale motivo, sia disceso da Hammid. Sebbene non ci sia molto surrealismo nell’opera di Hammid, c’è se osservi bene il suo lavoro anche prima del film Crisis, Light out in Europe, quando faceva piccole cose… Sì… Aimless Walk…: c’è della fantasia, un sogno, ma non esattamente del surrealismo. Hai visto Aimless Walk di Alexander Hammid? È per questo che alcuni ritengono che Meshes of the Afternoon sia…
EP: …derivato dal film di Hammid.
JM: Sì. Quando vedi Aimless Walk, non c’è surrealismo. È proprio così come lo si vede: qualcuno si sveglia, cammina, sogna e ritorna alla realtà. È solamente un piccolo stratagemma, ma non esattamente surrealismo.
Allora, da dove è derivato? Credo forse dalla stessa Maya!
EP: Da se stessa…
JM: Sì.
EP: Certamente…da un’innata natura artistica.
JM: Sì. Tuttavia ella non voleva esservi associata.
EP: Per niente voleva, ma spesso la gente ha l’abitudine di classificare le cose.
Lei crede che ci siano state delle cose in particolare su cui divergeva? Ad esempio, non conveniva sul fatto di considerare Meshes of the Afternoon un’opera surrealista, anche se è stata classificata come tale.
JM: Ci sono altri film, ma questo, credo, sia l’unico film che la gente abbia ritenuto tale.
EP: Mi scusi, ed il film Whitch’s Cradle?
JM: Quello è solamente un documentario di una mostra. Non è surrealista, credo sia proprio un documentario basato su una reale mostra. Inoltre, il film non è stato mai completato, di conseguenza non sappiamo quali fossero le intenzioni di Maya.
EP: Esattamente.
JM: Non trovo molto surrealismo in ciò. Anche se la mostra non era propriamente surrealista. È qualcos’altro, non so cosa sia.
EP: L’originale stile del “filmmaking” di Maya Deren si distingue dallo stile classico, diciamo, di un Ejzenštejn?
JM: Lo stile… Spesso, il contenuto determina la forma ed il suo stile, il suo contenuto era molto differente da quello di Ejzenštejn.
EP: Non molto simbolismo…
JM: Ritengo che… se vedi…Ritual in Transfigured Time… Non so proprio cosa sia. Credo, comunque, ci sia del Surrealismo.
EP: C’è. Ci sono degli elementi. È proprio un processo creativo.
JM: Gli elementi ci sono; è innegabile.
È un genere di cinema mentale, riscontrabile anche in Germaine Dulac o nel primo periodo francese; si riscontra un po’ di quel tipo di cinema mentale, di un cinema di genere astratto che si dilegua totalmente nel momento in cui si approda a Brakhage dopo Maya Deren.
Non sappiamo cosa ella abbia appreso nel periodo in cui studiava in Svizzera: quel periodo è una fase un po’ oscura. Tuttavia, sappiamo che, arrivata a New York, ebbe la possibilità di conoscere l’intero periodo dell’avanguardia francese: non avrebbe potuto vederlo a Los Angeles, ma lo vide a New York, giacché il Museo di Modern Art ne possedeva le opere. Non sappiamo cosa vide in Europa, potrebbe aver visto molto, ma non si sa.
EP: In pratica, non è ben documentato, ma passo ad un’altra domanda. Ella aveva dei rapporti con Cocteau? A quale livello?
JM: No. Non ne aveva.
EP: Se lei avesse la possibilità di chiedere a Maya Deren la sua opinione sui film di oggi, cosa crede proverebbe a riguardo?
JM: Disapproverebbe.
EP: Disapproverebbe? Troppo commerciali…
JM: Non sto parlando di commerciale, ma credo che disapproverebbe molto l’avanguardia indipendente, poiché non era favorevole all’improvvisazione. Il film doveva essere pianificato, doveva avere un fine. Certamente non è facile rispondere ad una tale domanda, perché anch’ella avrebbe dovuto cambiare se stessa ed avrebbe dovuto accettare determinate cose.
Ce ne sono pochi di quella generazione che potevano non accettare. Si accettarono il primo Markopoulos, il primo Brakhage; così come Parker Tyler conobbe e rispettò molto Maya Deren. Parker Tyler non poteva accettare il cinema dopo il 1960. Dopo il 1960, infatti, egli perse le tracce dell’Avanguardia, perché era ormai satura di Abstract,… Action Painting, ecc… Non potevano accettare ciò.
Credo sia stato tipico il suo[9] attacco a Pull my Daisy e Shadows, tuttavia quelli erano soldi sprecati!
EP: Sprecati vero?
JM: Sì.
EP: Non vorrei sottrarle troppo del suo tempo, ma, in conclusione, ha forse un aneddoto o una storia particolare che ricorda con piacere?
JM: Oh sì! Effettivamente ne ho già scritta una.
(J. Mekas cerca tra le carte...)
È qui? Forse è qui? Dove ho messo quel giornale adesso?
(regalandomi una rivista…)
Ti posso dare questa; è davvero una buona rivista!
EP: La ringrazio.
JM: In ogni caso, l’aneddoto è molto semplice. Si tratta della prima volta che ho incontrato Maya Deren…
(Mekas d’improvviso si volta verso alcune pile di giornali e sorridendo mi regala un’altra rivista, ironicamente affermando…)
È in questo! L’ho già scritto, quindi non te lo devo raccontare, ma te lo racconterò…
Ero in cerca di una copia di “An Anagram on Film” e non riuscivo a trovarla in nessun posto. Allora le ho telefonato, dopo aver trovato il suo numero di telefono. Sai… ero appena arrivato a New York.
Così, le ho detto “ Sto cercando il libro e non riesco a trovarlo in nessun posto. Potrei avere una copia da te?”. Lei mi ha risposto: “Sì, vieni. Ti presterò una copia”.
Così fissammo un appuntamento: mi recai a Morton Street, dove ella abitava nel Greenwich Village e, giunto al quarto piano, mi ritrovai di fronte Maya Deren che mi guardava frastornata, come in preda al panico.
Sai, io sono una persona timida; non sapevo cosa fare, cosa stesse accadendo. Così le chiesi: “C’e’ qualcosa che non va?”. Mi rispose: “Ah, credevo fossi Sasha Hammid, credevo tu fossi Sasha Hammid!…e non avevo appuntamento con lui!”. Sasha Hammid era suo ex marito. Allora erano già separati.
Proprio nell’attimo in cui ci siamo incontrati e nel momento in cui mi ha mostrato una foto[10], ho capito totalmente che vestito alla maniera europea, potevo assomigliare a Sasha Hammid, come un Doppelganger.
È stato così che ho conosciuto Maya, non come me stesso, ma come Sasha. In ogni caso siamo diventati grandi amici.
EP: Ho apprezzato molto la sua disponibilità nel concedermi questa breve intervista che mi sarà di grande aiuto nel progetto che sto realizzando. La ringrazio sentitamente per avermi concesso il suo tempo.
JM: Prego! Non ti ho dato molto aiuto, perché quei libri contengono talmente tante informazioni che si potrebbe realizzare una dissertazione basata solamente su quei tre volumi. Sfortunatamente non è ancora uscito il terzo libro, quello che riguarda Haiti in cui c’è molto sulla religione.
EP: Religione è una strana parola…
JM: Sì. Ai rituali era interessata, ai rituali, ai miti ed a certi tipi di simbolismo. Era più “simbolista”…
EP: Grazie!
JM: Non c’è di che.
EP: Di nuovo, grazie. È stato un piacere incontrarla di persona.
Per chi fosse interessato alla versione video dell’intervista:
Si ringraziano l’interpreter Cosmo A. Frasca per la traduzione delle domande e Fabio Selvafiorita per la supervisione del montaggio.
Scritto da: Elena Petrillo.
Note:
[1] Padre dell’Underground, propugnatore del cinema indipendente, fondatore di “The Film Maker’s Cooperative” (1962).
[2] JM: Jonas Mekas.
[3] EP: E. Petrillo/Cosmo, A. Frasca.
[4] I corsivi sono miei, per facilitare la comprensione della traduzione dell’intervista.
[5] I libri sono due: CLARK, Vévé, Amasasa/HODSON, Millicent/NEIMAN Catrina, The Legend of Maya Deren. A Documentary Biography and Collected Works, New York, Anthology Film Archives/Film Culture: Signatures 1917-42, vol. I, Part One; Chambers 1942-47 vol. I, Part Two, 1988.
[6] Ibidem: Haiti, terzo libro in uscita.
[7] Joseph Campbell. Vedi Capitolo IV della tesi.
[8] Dibattito tra Makas e Deren, cfr. Maureen Turim, the Ethics Form, in B. Nichols (a cura di), Maya Deren and the American Avant-Garde, Berkeley, Los Angeles, London University of California Press, 2001 pp.81-84.
[9] Di Maya Deren.
[10] Una foto di Sasha Hammid.