Regia: Carlos Reygadas.
Soggetto: Carlos Reygadas.
Sceneggiatura: Carlos Reygadas.
Direttore della fotografia: Alexis Zabè.
Produttore: No Dream Cinema, Mantarraya.
Anno: 2012.
Durata: 115′.
Paese: Messico, Francia, Paesi Bassi, Germania.
Interpreti e personaggi: Adolfo Jiménez Castro (Juan), Nathalia Acevedo (Natalia), Willebaldo Torres (Seven).
Indice:
–Trama
–Che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male?
–Lo spazio e il tempo
–It’s a dream, only a dream
Per iniziare nel migliore dei modi l’analisi di Post Tenebras Lux, vi direi che parlare di trama nel caso di questo film è completamente inutile; a meno di non voler cadere nell’errore di chi, come Wikipedia, si arroga il diritto di dire che questo film ha una “tematica particolare”. Si, il vostro timore è fondato, parlo esattamente di uno di quei film poco avvincenti e mortalmente lenti, in cui dal primo all’ultimo secondo ti chiedi perché non hai occupato questi 115 minuti guardando per l’ennesima volta Il favoloso mondo d’Amelie, che almeno ci rimorchi. Se riuscite a superare questo trauma, vi troverete ad ammirare, proprio così, un film sulla vita. Il regista ci fornisce la chiave di lettura migliore: “Siamo abituati a sapere esattamente cosa sta succedendo quando guardiamo qualcosa, il che è molto strano perché nella vita è proprio il contrario” [1] . Più chiaro di così?
CHE COSA FAREBBE IL TUO BENE, SE NON ESISTESSE IL MALE?
“Hai pronunciato le tue parole come se tu non riconoscessi l’esistenza delle ombre, e neppure del male. [..]che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose. Ma ci sono le ombre degli alberi e degli esseri viventi. Vuoi forse scorticare tutto il globo terrestre, portandogli via tutti gli alberi e tutto quanto c’è di vivo per il tuo capriccio di goderti la luce nuda? Sei sciocco.”[2]
Crepuscolo, idillio bucolico della piccola Rut (figlia del regista, nel film figlia di Don Juan), che felice, con la spontaneità che solo i bambini hanno, corre e gioca tra cani e mucche; attorno a lei la natura è di una sconcertante e poetica bellezza.
Il sole cala, risuonano dei tuoni in lontananza. Rut ha paura e anche noi, più consapevoli, capiamo che questo innocente incanto non durerà molto.
Entra in scena, come un operaio con cassetta degli attrezzi alla mano, un diavolo animato in CGI alto e dinoccolato, che si aggira con fare circospetto in una casa-qualunque di una famiglia-qualunque in cui l’unico ancora vigile sembra essere un bambino.
Senza questo incipit, e il conseguente finale – in cui il diavolo esce com’è entrato dall’abitazione, concludendo il suo turno– il film non avrebbe meno pregio stilistico, ma forse avremmo perso un tassello fondamentale per la comprensione dell’opera. La presenza del male grava su Post Tenebras Lux come un Fil-Rouge che tiene insieme delle scene praticamente autoconcludenti. Lo ritroviamo nelle idiosincrasie di Don Juan, nella sua rabbia violenta contro i cani, nei boschi in cui si aggira Seven, nei silenzi continui e penetranti all’interno dell’ambiente domestico.
L’esistenza di queste ombre cupe trova giustificazione nella pura luce emanata dai bambini, che raggiunge il massimo splendore nelle scene ambientate in spiaggia. Qui, finalmente ogni dialogo è abolito e la natura parla attraverso il rifrangersi continuo delle onde in un poetico inno alla gioia effimera della vita.
Emblematica, d’altro canto, la scelta della stanza di scambisti della coppia. Natalia e Juan sono in cerca della sala Duchamp, quando capitano per sbaglio nella sala Hegel, una sorta di sauna in cui una piccola ninfa dai capelli rossi, completamente a suo agio, fissa i protagonisti, e di conseguenza lo spettatore, con uno sguardo in cui si ritrova la complicità distaccata del regista. I colori sono freddi, il rosso de saturato, il sesso trattato come una fastidiosa pratica da sbrigare perché “il tuo corpo è fatto per questo“.
Reygadas, tramite la giustapposizione di immagini prese da reminiscenze o alterate dall’immaginazione stessa, in apparenza casuali, o forse no – o forse si direi io – riesce a far quadrare un cerchio, senza spiegarci chi come e perché… e a noi non dovrebbe importare.
…O la mancanza dello spazio e del tempo. Per il regista nessuna delle due cose è fondamentale in questo dramma profondamente umano. Il continuum temporale è discretizzato e rimescolato a piacimento, guanto di sfida nei confronti di chi ha ancora la presunzione di credere che il tempo sia più che una mera sovrastruttura.
Tutto è presente, mentre sta per svolgersi o si è appena concluso. L’esistenza di un percorso di redenzione o di condanna (per Seven, per Don Juan o per Natalia) è percepibile ma lasciato, in ultima analisi, all’immaginazione dello spettatore.
A cosa servirebbe dopotutto sapere se Don Juan farà ancora del male? se lo facesse il suo pianto sarebbe forse meno reale? La morte di Seven sarà l’assoluzione finale per le sue colpe? Le domande emergono dai silenzi e dai vuoti tra i fantocci nel teatro personale di Reygadas, e come nella vita nessuno ci fornirà le risposte.
La separazione tra i personaggi, tra le classi, tra i diversi aspetti della personalità di ognuno è resa ancora più evidente dal sapiente uso della macchina da presa.
Tramite una nuova lente, “fatta su misura e senza nome“, il regista sceglie di mettere a fuoco solo il centro di ogni scena, distorcendo e rifrangendo i bordi dell’immagine, emulando la mutazione dell’osservatore in uno strano animale kafkiano che continua a godersi lo spettacolo incurante, sensazione acuita dalla scelta di riprendere ad altezze e posizioni differenti lontane dai canoni classici.
Questa lente viene usata nella maggior parte del film quando si riprendono gli esterni, l’uomo nella natura, la natura per sé stessa; volendo sottolineare la possibilità di distorcere anche lo spazio a proprio piacimento poiché è l’uomo l’oggetto del nostro studio. Egli è messo a fuoco con tutti i suoi difetti e frustrazioni, l’imperfezione umana diventa perfezione scenica, nella sua infinita piccolezza in rapporto con qualcosa di diverso dal sé o dalla percezione dell’Altro come riflesso di sé stesso. Non a caso, quando Natalia canta per Juan nel lirico finale, ritroviamo l’uso di quest’elemento alternato a quello di una lente normale.
Ricordi d’infanzia e tenerezza, ma soprattutto profezie fatali ci accompagnano in questa lunga chiusura, elogio al naturale dissolversi della memoria. “Oggi mi sono sentito come quando ero bambino” dice Juan, e subito dopo il premonitore: “Alla fine della mia vita so che sarò malato”, ancora a sottolineare quanto il reale scorrere del tempo sia solo un’imposizione dell’uomo sull’uomo.
Juan e Seven, entrambi spacciati e consapevoli, entrambi in cerca di redenzione. La descrizione del fallimento, o della disfatta dell’uomo nei confronti della vita è ancora affidata alle parole dei bambini: “Dov’è tuo padre?” “Vieni a giocare con noi, è già morto”; o all’assenza dei bambini al ritorno di Seven.
È solo dopo aver sottolineato ciò che finalmente il diavolo ci libera della sua presenza, lasciando all’uomo l’onere, o l’onore, di porre fine al suo interminabile sogno.
Negli ultimi 10 minuti la frustrazione che affligge l’uomo di Reygadas è insopportabile e lo abbandona solo al compiersi di un disperato suicidio isterico, proiettandosi nella natura circostante scossa da un violento acquazzone – in cui la pioggia crea pozze sanguinolente a causa della terra rossa – sinonimo di purificazione e possibilità. Non è questo, però, il ricordo con cui il regista conclude la sua opera. Sarebbe stato troppo facile e lineare, quasi banale, porre fine alla sofferenza con la morte; invece ci serve una partita di rugby tra ragazzi sporchi e felici… la vita è uno sport di contatto.
“La cosa bella degli sport di contatto è che hai paura: sei al centro della mischia, tante persone in cima a te, hai la sensazione che perderai il respiro, tutto implica che la vita va avanti anche se hai paura, continua a giocare, non importa. “[3]
Scritto da: Ilaria Micella.
Note:
[1] The Guardian, Intervista a C. Reygadas: https://www.theguardian.com/film/2013/mar/14/carlos-reygadas-post-tenebras-lux
[2] M. Bulgakov, Il maestro e Margherita
[3] The Guardian, Intervista a C. Reygadas: https://www.theguardian.com/film/2013/mar/14/carlos-reygadas-post-tenebras-lux