Regia: William Oldroyd.
Soggetto: Nikolaj Leskov.
Sceneggiatura: Alice Birch.
Musiche: Dan Jones.
Direttore della fotografia: Ari Wegner.
Produttore: Fodhla Cronin O’Reilly.
Anno: 2016.
Durata: 89′.
Paese: Regno Unito.
Interpreti e personaggi: Florence Pugh (Catherine Lester), Naomi Ackie (Anna), Cosmo Jarvis (Sebastian) , Paul Hilton (Alexander Lester), Christopher Fairbanks (Boris Lester), Golda Rosheuvel (Agnes), Rebecca Manley (Teddy).
Lady Macbeth – primo lungometraggio di William Oldroyd – è un film drammatico del 2016, basato sul racconto Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk (1865) del russo Nikolaj Leskov. L’adattamento cinematografico ad opera della sceneggiatrice e drammaturga Alice Birch, sposta la narrazione dalla Russia all’Inghilterra dello stesso periodo, la seconda metà dell’800.
Il film inizia con un primo piano di una giovane con il capo velato di bianco. Un controcampo ci presenta immediatamente Catherine (Florence Pugh) in volto ma con la testa china. Ha diciassette anni, lo sguardo basso e intimidito di una ragazzina d’altri tempi il giorno delle sue nozze.
Alexander Lester (Paul Hilton), suo futuro consorte, è un ricco rampollo molto più grande di lei, figlio del proprietario di una miniera, Boris Lester (Christopher Fairbank). Il neo sposo – introdotto solo nella scena successiva – ci viene presentato in un contesto antitetico. Al buio della loro camera da letto, ancora in mise nuziale, intento a dare indicazioni a Catherine per poi masturbarsi osservandola nuda e girata di spalle, rivolta verso un muro.
Scelte oculate dell’autore al fine di disilludere da principio ogni fiabesco sogno d’amore, per spingerci senza preamboli nelle dinamiche di un matrimonio di interesse.
Catherine, dopo le nozze, vive ed agisce nei limiti dello spazio domestico, accompagnata solo dalla sua domestica di colore Anna (Naomi Ackie) e soggiogata dalle limitazioni inflessibili del suocero e dall’indifferenza assoluta del marito.
La grande casa dove si svolgono tutte le azioni del film, immersa nella campagna inglese – rigogliosa e spettrale – è, a dispetto della sua stessa estensione, il simbolo stesso della dimensione claustrale della vita della protagonista, costituita da un ciclo di azioni che si ripetono uguali giorno per giorno.
Alexander – la controparte – è riluttante e sembra ricercare uno spazio inviolato dove sfuggire tanto ai doveri coniugali, quanto all’autorità asfissiante del padre.
Il suo rapporto con Catherine è nullo dentro e fuori la camera da letto, la passione erotica ridotta al suo mero appagamento voyeuristico in cui la moglie figura da silenzioso oggetto sessuale. Boris agogna un erede che tarda ad arrivare e il tempo ne vanifica le attese, ne acuisce l’astio verso la nuora, considerata inadatta e inadempiente verso il suo ruolo di moglie e genitrice.
Lo svolgimento delle azioni ha un punto di svolta quando padre e figlio si allontanano per motivi lavorativi, lasciando le due donne da sole. Affrancata dal controllo dei due, scorrazza libera per le campagne e si abbandona – nullafacente – ad una deprimente sonnolenza. Fino a quando non incontra uno degli stallieri della magione – Sebastian (Cosmo Jarvis) – e tra i due nasce una relazione travolgente.
Il rapporto segreto tra Catherine e Sebastian è presto oggetto di una soffiata da parte di Anna al parroco della città. Catherine, al ritorno di Alexander e Boris, ottiene da parte loro ulteriore e più feroce ostilità, violenza verbale, nuove restrizioni. È marchiata a fuoco dallo stigma di essere una donnaccia, una poco di buono. Ma qualcosa si è distrutto dentro Catherine e qualcos’altro si è creato.
Difenderà con le unghie e con i denti la sua libertà, fino a quando non sarà disposta a tutto pur di salvaguardare sé stessa e l’uomo che ama e la ossessiona. Fino alla follia omicida senza scrupoli. Il cardine delle vicende è senza dubbio l’evoluzione – involuzione di Catherine Lester da vittima a carnefice, secondo un climax ascendente. È l’encomio noir di un personaggio forgiato dal malessere estremo ad un eroismo puramente individualista. Come l’ha definita Peter Bradshaw – The Guardian – è al contempo “sphinx and minx” – sfinge e civetta.
La storia di Catherine non ricorda solo la Lady Macbeth shakespeariana dalle mani insanguinate, alla quale si sono ispirati tanto il romanzo di Leskov quanto il film.
Ha lo stesso sguardo seducente e malvagio delle donne klimtiane. Remissivo o provocatorio. La presa di posizione non dissimile a quella perniciosa di Emma Bovary, munita di ambizioni frustrate e arsenico.
La parabola personale della protagonista fa da perno ad una riflessione ad ampio raggio. L’autore ci offre uno spaccato – seppur limitato – di quella che doveva essere la società borghese dell’Inghilterra rurale dell’epoca, mettendo a fuoco l’esistenza costellata di abusi e privazioni per le donne, i soprusi subiti dalle minoranze etniche e le castranti gerarchie familiari dei ceti privilegiati.
La durezza delle tematiche si appropria anche degli aspetti stilistici del film. Le riprese sono statiche, richiamano alla mente la regia sorvegliatissima di Haneke, dove la macchina da presa funge da osservatore immobile. La fotografia, invece, è di una bellezza algida, costituita in gran parte da primi piani e campi medi negli interni dell’abitazione, in cui i personaggi sono disposti secondo simmetrie perfette rispetto all’architettura e all’arredamento delle stanze. La natura, nei campi medi e lunghi degli esterni, diventa fonte di letizia e brivido, secondo quel sublime tanto caro ai romantici.
I numerosi primi piani su Catherine che si susseguono nel film ne mettono a fuoco l’inversione di tendenza, fissandone lo sguardo dapprima timorato e poi cattivo fino alla sfacciataggine.
Le pose, i vestiti e l’oggettistica curata nei minimi dettagli ricordano tanta di quella pittura accademica coeva all’ambientazione del film, come i lucenti tessuti blu dipinti da Hayez. Impossibile inoltre non pensare a simili, impeccabili geometrie e sottese psicosi di un Sussurri e grida (Ingmar Bergman, 1972). Un accenno di dinamicità si ha solo quando la camera a mano segue Catherine con i capelli sciolti, come a ritrarla simbolicamente “sbrigliata” dalla sua vita in cattività, durante i suoi pochi momenti da donna libera. Nel verde della natura – lontana dagli sguardi severi degli assenti – o quando è in compagnia di Sebastian.
Merito di tanta perizia va di sicuro alla precedente esperienza da regista teatrale di Oldroyd, promosso dalla critica al suo primo lungometraggio.
Il film è stato presentato al Toronto Film Festival il 10 settembre 2016 e in seguito anche al BFI London Film Festival nell’ottobre 2016 e al Sundance Film Festival il 20 gennaio del 2017. Tra i riconoscimenti, è stato premiato al Toronto International Film Festival e scelto come Top Ten Pick dello stesso da Variety e Rolling Stone, insignito del FIPRESCI International Critics’ Prize a San Sebastian e a Tessalonica, del Critics’ Choice a Zurigo e del Cineuropa Prize a Les Arcs.
Scritto da: Ludovica G.