Regia: Daniele Vicari.
Sceneggiatura: Daniele Vicari.
Musiche: Stefano Di Battista.
Direttore della fotografia: Gherardo Gossi.
Montaggio: Benni Atria, Alberto Masi.
Produttore: Fandango, Rai Cinema, Lazio- Fondo Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo, Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC), Rai Radiotelevisione Italiana, Regione Lazio, Sky Cinema.
Anno: 2016.
Durata: 113′.
Paese: Italia.
Interpreti e personaggi: Isabella Ragonese (Eli), Eva Grieco (Vale), Francesco Montanari (Mario), Francesco Acquaroli (Nicola), Giulia Anchisi (Bianca).
Ogni mattina Eli si sveglia prima che faccia giorno e affronta una traversata di due ore a bordo di pullman, metropolitane e autobus per raggiungere il posto di lavoro. Fa la barista in zona Tuscolana a Roma, ci sa fare con i clienti che apprezzano le sue crostatine fatte a mano, e ci mette del suo per rendere un incarico malpagato (in nero) qualcosa di vitale e gratificante. Del resto, con quattro figli da mantenere e un marito che ha voglia di lavorare ma nessuno che gli dia un incarico serio, c’è poco da fare la difficile: dunque Eli sopporta l’ignavo padrone del bar e la sua moglie maleducata, e sogna un futuro più semplice e più stabile.
Si apre il sipario su una Roma difficile da vivere, lontana dai salotti scintillanti e asettici di Sorrentino, ma anche lontana dal ritratto prepotente e fumettistico di film come Lo chiamavano Jeeg Robot e Suburra.
La spietatezza non manca, è violenza quotidiana, insidiosa ed insinuante. Siamo lontani dalla spettacolarizzazione hollywoodiana che si dice stia salvando il cinema nostrano – merito reale ma che porta con sé numerosi dubbi – e che diviene monito dell’appiattimento culturale e della genuflessione al sistema, sbriciolando film dopo film carattere e particolarità totalmente italiane.
Daniele Vicari nasce come documentarista ed in tutti i suoi film di ‘fiction’ porta con sé questo bagaglio usandolo con maestria, parlando del reale con poesia ma senza inutili orpelli e per questo i suoi film sono difficili da dimenticare. Ricordare un artista poliedrico come lui per un’opera sola è quasi un insulto, ma con Sole Cuore Amore si è riaperta la ferita che la visione di Diaz – Don’t cleen up this blood mi ha inferto anni fa. Le tematiche sono sicuramente differenti, lo stile narrativo anche, ma l’onestà e il senso di una giustizia ormai svalutata ci sono. L’attenzione meticolosa che Vicari pone verso tutti quei dettagli all’apparenza insignificanti, ma che rendono i protagonisti totalmente umani è il marchio di fabbrica di una mente attenta a non snaturare il racconto del quotidiano. Che quest’accortezza sia un pregio o un difetto sta all’occhio di chi guarda dirlo.
Si apre il sipario letteralmente, perché Sole cuore amore assomiglia ad una messa in scena teatrale, complici le movenze sinuose e trascinanti di Vale (Eva Grieco) ed un montaggio ipnotico che ci porta in medias res di una giornata tipo delle nostre “personae” nella periferia romana.
Eli (Isabella Ragonese) , madre moglie e lavoratrice, ritratto di quella parte d’Italia che cerca di “tirare a campare”. Tutta la sua giornata è monopolizzata dal lavoro, i figli sono una presenza immanente ma praticamente invisibili, il marito interpretato dal bravissimo Francesco Montanari – irriconoscibile smessa la maschera iconica de er Libano e indossate queste scarpe da padre di famiglia amorevole ma senza speranza lavorativa – sono solo comparse.
I due nonostante le mille difficoltà, sono ancora molto innamorati e capaci di quelle tenerezze quotidiane che risollevano lo spirito, tanto che i loro momenti intimi stonano interamente con il quadro che minuto dopo minuto prende forma sullo schermo, creando una dissonanza che scandisce il passare dei giorni.
Isabella Ragonese porta sul suo cappotto rosso lo stendardo di rappresentanza di un’intera classe sociale, delle volte risultando quasi inverosimile nel suo ruolo di strenua combattente. Con lo sguardo sempre più stanco, mentre ci accompagna nell’interminabile tragitto casa – lavoro, sembra che cerchi di prepararci ad accettare l’ingiustizia della vita, cosa che lei ha fatto già da tempo firmando di proprio pugno ed in triplice copia la sua condanna e la sua unica possibilità.
Vale è una boccata d’aria fresca nell’apnea indotta dalla storia di Eli, un perenne bastian contrario che si scontra con la madre, con le istituzioni e con la sessualità nella ricerca di autenticità e affermazione della sua persona. Nel percorso non abbandona mai l’eleganza e la leggerezza che l’avvolgono tanto nelle sue performance in discoteca quanto mentre da ripetizioni alla figlia di Eli.
Le due donne vivono agli antipodi, mentre una torna a casa l’altra esce e viceversa, e si incontrano in ritagli di tempo nei bus strapieni e maleodoranti. Non perdono occasione per parlare cuore a cuore della vita e dei problemi, senza avere la faccia tosta di cercare soluzioni che entrambe sanno inesistenti ma con l’animo amico di chi ascolta perché sa che l’altro ne ha bisogno.
Un film sull’amicizia e sulla forza delle donne, senza la retorica femminista di ultima generazione, che riconosce alle donne un ruolo in società in quanto sensienti non in quanto categoria da preservare o incentivare. L’arte di cavarsela di chi sa lasciare anche spazio alla leggerezza non facendosi sobbarcare dal macigno dell’esistenza.
I colori di Vicari sono freddi e nebulosi, il blu ed il rosso si alternano serratamente amalgamandosi tra la periferia desolata e le scene glamour in discoteca; alla fine a rubargli la scena arriverà l’unico colore caldo: il giallo della metro romana, in un’antonimia finale. I temi trattati sono innumerevoli: il precariato, i ruoli all’interno della famiglia, i sogni perseguiti e quelli infranti nel cercare di arrivare a fine mese, per questo alcuni non trovano il giusto spazio, ma anche il solo accennare ad alcune di queste realtà è funzionale alla creazione di un quadro della complessità della vita moderna.
Scritto da: Ilaria Micella.