Mi ha fregato il primo film. . .
avrei preferito una diversa libertà,
anche usando il cinema: andare in giro, vedere,
conoscere,
vivere senza i vincoli del mestiere
Prima di iniziare questa seconda parte del nostro approfondimento su Marco Ferreri (qui la prima ) nella quale tratteremo l’analisi di due opere molto distanti, sia per argomento che temporalmente, ecco un estratto dal libro di Tullio Masoni per re immergersi nel mondo di Ferreri.
«Da bambino ero grasso – aveva risposto Ferreri a una mia domanda – un bambino grasso.. ». Per lui non sembrava esserci altro modo di descrivere la propria infanzia, nessun’altra parola. Da quell’unico carattere dovevo trarre ogni conseguenza: immaginare il bambino grasso della banda di caseggiato che assorbiva ogni momento libero nei suoi anni di crescita, e l’uomo attratto dai misteri del corpo, dal cibo, da una contemplazione pagana sempre capace di ricondurre a nobiltà lo sporco disordine dell’istinto. Solo un dettaglio, riferito alla madre, Ferreri avrebbe aggiunto poco dopo: « Era come me, grassa e con la mia stessa faccia. Unica differenza, lo chignon che portava in testa. Era una donna molto espansiva, le piaceva far da mangiare, invitare.[…] scriveva anche ».
Caratteristica di entrambe le pellicole è, però, la mancanza di movimento, il lento incedere della trama. Quella che Maurizio Grande chiama forma « statica », « l’inquadratura celibe » e la mancanza di progressività e di sviluppo della storia, che ritroviamo in forme esemplari in opere come Dillinger è morto e La grande abbuffata, risponde essenzialmente ad una sorta di scetticismo ontologico e irriscattabile : « il discorso di Ferreri è statico perché nasce da un tipo di giudizio non costruttivo, non proiettato in avanti, pago delle sue scoperte fondamentali, dello scetticismo di fondo che scopre la vanità di qualsiasi intervento in un mondo irrilevante, né buono né cattivo; probabilmente soltanto insignificante. »
Regia: Marco Ferreri.
Soggetto: Marco Ferreri, Rafael Azcona.
Sceneggiatura: Marco Ferreri, Dante Matelli.
Direttore della fotografia: Mario Vulpiani.
Musiche: Teo Usuelli.
Montaggio: Giuliana Trippa.
Produttore:Franco Cristaldi.
Anno: 1972.
Durata: 112′
Paese: Italia, Francia.
Interpreti e personaggi: Claudia Cardinale (Aiche), Vittorio Gassman (Principe Donati), Ugo Tognazzi (Aureliano Diaz), Michel Piccoli (Padre Amerin), Enzo Jannacci (Amedeo).
-Trama
-L’eco di Kafka
-Amedeo il pellegrino
-L’apologia
Amedeo è un giovane del nord, timido e impacciato, che si reca a Roma con il fermo proposito di parlare con il papa, “anche nel suo interesse”, ed è pronto a tutto pur di riuscirci. In nessun modo, però, intende rivelare ad alcuno il per cui gli sia necessario parlare col pontefice.
Inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare, questo è un lungometraggio che, almeno in apparenza, sembra una svista nella filmografia del regista. Nonostante non sia tra le opere maggiori di Ferreri, vanta un cast d’eccezione e nel 2014 la pellicola è stata restaurata dal Museo Nazionale del Cinema di Torino e dalla Fondazione Cineteca di Bologna e presentata al Festival del cinema di Venezia. Il restauro della pellicola, per la prima volta in Italia in quest’ambito, è stato possibile grazie al contributo raccolto tramite crowd funding.
Il topos, palesato dalle parole dello stesso Amedeo (Enzo Jannacci), è quello del percorso kafkiano. Tra i lavori mai sviluppati da Ferreri troviamo proprio un film su ‘Il castello’ di Kafka e verosimilmente con quest’opera l’autore ha cercato di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Il Vaticano assume le sembianze del Castello; nonostante l’ispirazione, Ferreri non perde occasione per metterci del suo, quindi Kafka, emblema della metafisica, diviene solo l’espediente per una critica verso tutto quello da cui è agli antipodi: la realtà e la concretezza del mondo materiale contestualizzato nello ‘spirito cristiano’. Egli dice: « Kafka trasforma la sua geografia chiara e precisa in una metafisica ; qui, al contrario, partendo dallo schema narrativo di una costruzione kafkiana si tende a rifare il cammino all’indietro, verso la realtà e la concretezza ».
E’ significativo menzionare alcune delle interpretazioni più autorevoli dell’opera di Kafka, per cercare, in parallelo, diverse chiavi di lettura ne L’udienza. In primo luogo, vi è l’analisi in chiave teologica di Max Brod, biografo di Kafka che fornisce un primo studio minuzioso del pensiero dell’amico. Secondo il giornalista nel Castello si rappresenta la Grazia Divina, mentre nel Processo la Giustizia di Dio; il filo conduttore è l’ arrabattarsi dell’uomo fra le vicende del quotidiano cercando di comprendere il pensiero di un Dio assente. Successivamente, l’opera di Kafka viene riletta in chiave moderna e assimilata a teorie quali quella Marxista, in cui il Castello rappresenterebbe l’oppressione della macchina capitalista, o ancora al pensiero di matrice sociologica di Benjamin o di Adorno, l’uomo determinato dal Castello e per questo privato della propria identità.
Nel film di Ferreri troviamo tutti i piani di lettura citati e numerosi altri dati dalla peculiare posizione di potere dell’istituzione cristiana in Italia.
Il film scorre inesorabile senza scatti o picchi di tensione, né si arriva mai ad un culmine o ad uno stravolgimento della trama. La lentezza della pellicola è quella del cammino di Amedeo verso quest’ideale udienza papale. I personaggi che incontra lungo la sua strada sono utilizzati sapientemente come figure retoriche e simboli della modernità. Il commissariato, presieduto dalla figura autoritaria e corrotta di Aureliano Diaz( Ugo Tognazzi), è la prima delle tappe del calvario di Amedeo attraverso le strutture del potere. Qui viene spogliato e messo in ridicolo, lo si accusa di possedere video pornografici finché non emerge il ruolo sociale del protagonista e qualcosa cambia. Le gerarchie sono l’unica Bibbia a cui si fa riferimento. Non è solo all’interno delle istituzioni, il commissariato, il monastero, la casa principesca e quella della prostituta Aiche, che l’uomo viene messo sotto torchio e distrutto dall’esercizio di forme di Potere (spirituale, economico, erotico – sentimentale) diverse ma complementari. Emerge una visione totalizzante e continua dell’esercizio del Potere a scapito dell’uomo, un Panopticon Foucaltiano che grottescamente riprende il circuito del colonnato di San Pietro dove, non a caso, Amedeo morirà.
La figura del papa, spogliata dal suo ruolo, diviene solo un pretesto. Ferreri in un intervista con Goffredo Fofi, alla domanda se nel papa buono (Giovanni XXIII, quello tanto agognato nel suo film) ci fosse l’ultima possibilità di salvezza per una chiesa in disfacimento, risponde: < Il tentativo di Giovanni XXIII non fu altro che un tentativo al servizio del potere. Nel film non c’è nostalgia per papa Giovanni o per il Concilio; Giovanni è stato uno dei più grossi “public relations men” degli ultimi anni […]. L’udienza è l’analisi di un potere in disfacimento ma che è ancora pericoloso» .
Una via di fuga, da questo labirinto marmoreo in cui Amedeo è schiacciato, è presente fin dall’inizio della pellicola. Nonostante ciò, egli respinge anche l’unica cosa donatagli senza interesse: l’amore di Aiche(Claudia Cardinale). La donna in un primo momento a servizio del potere, impara ad amare Amedeo, lo protegge e addirittura lo mantiene. Amedeo sembra non rendersi nemmeno conto di quanto Aiche faccia per lui tanto è concentrato al raggiungimento del suo inutile scopo. Egli pensa di trovare risposte e salvezza nel Papa, quando l’unico luogo in cui all’uomo è permesso di trovarle è nel congiungimento con l’altro, così si autocondanna all’infelicità e al continuo vivere nel suo ‘incubo kafkiano’.
In L’udienza ritroviamo i temi dell’isolamento, della morte e dell’esclusione oltre che ai classici argomenti ricorrenti ferreriani: la relazione uomo-donna, la fuga, l’erotismo. C’è ancora una volta la possibilità del raffronto tra il queste istanze e il mondo ed il cinema di Ferreri. L’isolamento, l’esclusione e la morte sono leggibili non solo come tematiche basilari della vita dell’uomo, ma anche in chiave autobiografica. Un Ferreri isolato nell’illusione del cinema, escluso dalla prassi politica e dalla militanza, anche e forse soprattutto per le sue ‘incapacità’.
Regia: Marco Ferreri.
Soggetto: Marco Ferreri.
Sceneggiatura: Marco Ferreri, Liliana Betti,Massimo Bucchi,Paolo Costella.
Direttore della fotografia: Ennio Guarnieri.
Montaggio: Ruggero Mastroianni.
Produttore:Giuseppe Auriemma.
Anno: 1991.
Durata: 90′.
Paese: Italia.
Interpreti e personaggi:Philippe Léotard (Nicola), Francesca Dellera (Francesca), Sergio Castellitto (Paolo), Nicoletta Boris (Padrone del bar), Sonia Topazio.
La trama, come al solito per Ferreri, è ridotta all’osso.
Un uomo: Paolo, pianista da bar frustrato e idiosincratico e una donna: Francesca, bellissima quanto languida e inconsistente, si incontrano e si innamorano. Nel giro di pochi minuti decidono di scappare dal mondo reale e rinchiudersi, con una scorta di cibo degna di una catastrofe nucleare, in una casa al mare sulla spiaggia romana, da qui lo svolgimento è tutt’altro che convenzionale. Che i due si chiamino proprio Paolo e Francesca è solo l’ennesima canzonatura del grande Ferreri nei confronti dell’amore romanzesco.
Il tema della carnalità viene trattato passando con naturalezza dal cibo al sesso, dall’animale all’uomo. È continua la trasposizione dell’animale in Francesca, che addirittura viene utilizzata come ‘manichino’ per identificare le parti migliori della mucca dal macellaio. Alla risposta, francamente idiota, di lei « Io sono Francesca », Paolo risponde: « Ma in India, Francesca, la vacca è la madre di tutto ».
Non c’è vergogna nel parlare delle cose nella loro sostanza, senza artifici o edulcoranti. Nonostante ciò c’è un senso di sacralità totalizzante che fa da filo conduttore nelle vicende narrate, ed è la giustificazione per cui i personaggi decidono di compiere le azioni che compiono. Se per Francesca si tratta di una spiritualità mistica e naturale, completamente femminea, che la doterà di poteri magici in uno dei momenti più bizzarri del film, per Paolo è il rigore religioso Cristiano. Egli è ossessionato dal ricordo della Madre, che per fargli fare la prima comunione ha ostinatamente affrontato il marito violento. Situazione che si ripropone a personaggi invertiti con la sua ex moglie. Paolo non mostra interesse per niente che sia umano, anche i figli lo interessano poco, per non parlare degli amici, le uniche cose per lui care sono l’animale (il cane Giovanni) e il Sacro, il quale impersonato da Francesca, si tinge degli stessi caratteri di una venerazione per una bestia.
I due creano il loro rifugio separandosi dal mondo ma è evidente come solo Paolo si senta a suo agio in quella situazione, Francesca tende inesorabilmente a cercare la fuga, con la scusa delle cicogne personificazione di un sentimento materno, incredibilmente forte in lei, ma inattuato.
Nonostante l’apparente superficialità del personaggio e dei dialoghi a dir poco imbarazzanti, o forse proprio grazie a questo, Francesca spicca per la lucidità con cui affronta la sua vita e per questa sua calma innaturale in ogni situazione. Quando il loro duetto viene interrotto dall’intrusione di personaggi esterni, qualcosa si spezza ed il personaggio costruito da Paolo inizia a crollare dando sfogo alle proprie manie. Quando Paolo è ormai completamente fuori controllo, un assaggio di quello che accadrà ci è dato dal sapiente uso che Ferreri fa della musica, come in ogni suo film, il pacato pianista canta per la prima volta un pezzo di De André: se ti tagliassero a pezzetti…
Il finale è un sacrificio rituale in piena regola. «Non potevo di certo mangiarla senza ammazzarla» , dice paolo alla Madre « volevo mangiare Dio tutto intero ».
Scritto da: Ilaria Micella
Bibliografia:
Maurizio Grande, Marco Ferreri, Bulzoni 2016
Tullio Masoni, Marco Ferreri, Gremese editore 1998
Elogio dell’incultura, Conversazione con Marco Ferreri a cura di Gianfranco Cercone, in ‘Cinema Sessanta’