Recensione Assassination Nation

In Cinema, Recensioni brevi, Recensioni Film, Tomàs Avila by Tomas AvilaLeave a Comment

Condividi:
Share

Regia: Sam Levinson.
Soggetto: Sam Levinson.
Sceneggiatura: Sam Levinson.
Colonna sonora: Ian Hultquist.
Direttore della fotografia: Marcell Rév.
Montaggio: Ron Patane.
Produttore: BRON Studios, Foxtail Entertainment, Phantom Four, Creative Wealth Media Finance.
Anno: 2018.
Durata: 108′.
Paese: USA.
Interpreti e personaggi: Odessa Young (Lily), Abra (Em), Suki Waterhouse (Sarah), Hari Nef (Bex), Colman Domingo (Direttore Turell).

Assassination Nation è il secondo lungometraggio scritto e diretto da Sam Levinson, figlio del celebre regista Barry Levinson.

Lily, studentessa dell’ultimo anno di liceo, e le sue amiche vivono in un universo fatto di messaggini, post, selfie e chat, proprio come tutti i giovani del mondo. Quindi, quando un hacker anonimo inizia a pubblicare i dettagli delle vite private di tutti nella loro cittadina di Salem, ha inizio una lunga notte di follia che porterà Lily e le sue amiche a chiedersi se vivranno fino al mattino successivo. (Da Filmtv)

Assassination Nation è un film con un grande potenziale e che per certi scelte di Levinson colpisce ma allo stesso fa rimpiangere cosa sarebbe potuto essere.
Chiaramente l’intento è quello, non più molto originale, di decostruire e demolire il perbenismo di facciata della classica città di provincia americana.
Stesso intento di un altro film che non ci aveva convinto: Suburbicon di George Clooney, scritto dai fratelli Coen. Essendo il tema ormai abusato, è difficile affrontarlo in modo convincente, riuscendo ancora a scioccare dopo anni di film del genere.

La novità, forse, è il tentativo di mostrare una provincia americana 2.0, ormai profondamente cambiata dall’avvento di internet e dei social network.
Se già prima la metafora perfetta per descrivere la falsità di quel mondo erano le città costruite apposta per effettuare i test nucleari, dove tutto è di plastica e appunto costruito, ora i social network hanno aggiunto un’ulteriore strato di finzione, un’ulteriore maschera.

Lily e le sue amiche ci vengono presentate come le classiche cattive ragazze, drogate di social, e sempre pronte a combinare casini.
Ed è questa, in effetti, la cosa più riuscita del film: il ribaltamento dei ruoli. Le protagoniste, che inizialmente risultano quasi antipatiche, sono in realtà le più normali, seppure nei loro eccessi.

Quando la città inizierà a impazzire a causa delle rivelazioni dell’hacker, tutti inizieranno a mostrare il loro vero volto (in senso figurato, visto che la caduta della maschera metaforica coincide con l’indossare una maschera fisica) e Lily e le sue amiche, passeranno da bad girls a capri espiatori e vittime della folle violenza dei concittadini, in cerca di qualcuno su cui sfogare i propri istinti animaleschi.

Tutta la seconda parte è dominata dall’anarchia, nell’accezione negativa del termine, e riporta alla mente la saga de La notte del giudizio di James de Monaco, molto più interessante e riuscita però rispetto ad Assassination Nation, dal quale Levinson riprende anche l’iconografia delle maschere, uno dei tratti caratteristici della saga.

De Monaco infatti ha intelligentemente sottomesso i discorsi politico-sociali (che col progredire della saga sono diventati sempre più evidenti) a una logica di genere. Si tratta di film rivolti al grande pubblico, in grado di comunicare dei messaggi non indifferenti.
Levinson invece spiattella in faccia allo spettatore fin dall’inizio la sua volontà di fare critica sociale, facendo inoltre raccontare la storia da un narratore interno (la stessa Lily) che rende ancora più distante lo spettatore.

Nell’ultima parte, il film prende una svolta molto più vicina al genere, tra home invasion e horror splatter (notevole ma del tutto superfluo il piano sequenza dell’assalto alla casa, molto vicino ai virtuosistici movimenti di macchina di Brian de Palma e al celebre piano sequenza del Tenebre di Dario Argento).
Il sangue abbonda e dispiace però che Levinson non riesca mai ad abbandonarsi del tutto al genere.

Che dire poi del finale? Il tema più interessante del film, quello della falsità delle relazioni sociali sia nel mondo reale che nel mondo virtuale, viene liquidato rivelando l’identità dell’hacker (che lo ha fatto solo per diletto, alla Funny Games, ma senza l’indagine sulla violenza di Haneke) e in primo piano passa il tema del femminismo e della violenza sulle donne, casualmente proprio nel periodo del #metoo.

Un inizio interessante per un film che poi va a perdersi nella retorica più semplicistica e furba, cavalcando l’onda di un movimento con molte ombre, che dalla scorsa edizione degli Oscar sembra tanto caro al mondo di Hollywood, smascherandone in realtà l’estrema falsità, la stessa che viene paradossalmente criticata da Assassination Nation.

 

 

Scritto da: Tomàs Avila.