Spesso accade di ritrovarsi a parlare di pellicole fin troppo dimenticate dal grande pubblico nel momento in cui nuove pellicole, di simile fattura, riescono a diventare nuovi casi mediatici.
L’uscita di Blair Witch ha sicuramente contribuito a riportare alla ribalta il suo fratello maggiore, The Blair Witch Project, una pellicola che può vantare di aver dato il via ad un genere molto ricco degli ultimi anni, quale quello del found-footage.
Sulla scia della geniale intuizione della tecnica del finto reportage di Ruggero Deodato con il suo raccapricante ma premonitore Cannibal Holocaust (e parliamo del 1979!), The Blair Witch Project è stato considerato per molto tempo uno dei film più spaventosi di sempre non solo perché si tratta del primo found-footage ma piuttosto per l’incredibile campagna marketing che gli è stata cucita addosso e che ha cambiato il nostro modo di vivere i nuovi media per sempre.
Per i pochi non hanno mai sentito parlare di questo film del 1999, The Blair Witch Project è un horror a basso budget diretto da Daniel Myrick e Eduardo Sánchez che si presenta come un documentario, le cui vicende ruotano attorno alla terrificante leggenda metropolitana della strega di Blair e tre giovani studenti che intendono realizzare un girato su essa.
Mentre stanno indagano sulla misteriosa strega, che si diceva infestare i boschi intorno a una remota città del Maryland, i tre studenti scompaiono in circostanze misteriose e il loro girato viene presumibilmente trovato solo 10 anni più tardi dalla polizia; di conseguenza, quello che vediamo nel film, si dice essere il montaggio delle riprese originali effettuate dai tre giovani prima di scomparire nel nulla.
Durante la produzione, durata poco più di una settimana, Sanchez e Myrick non hanno fatto altro che dare direttive ai tre attori, lasciandoli solo nel bosco (più precisamente facendoglielo credere, in realtà gli attori sono sempre stati seguiti e sottoposti a loro insaputa a scherzi di vario genere) con poche indicazioni e affidando le riprese al semplice uso di telecamere amatoriali, cosa che ha ovviamente contribuito a rendere quel senso di realtà, essenziale alla buona riuscita del film, soprattutto durante il lancio pubblicitario.
Diciassette anni dopo noi sappiamo che è stato tutto costruito, ma nel 1999, un anno senza Facebook, YouTube e altri social media come li conosciamo oggi, la Artisan Entertainment, la compagnia che acquistò i diritti del film, è riuscita ad architettare un’ incredibile campagna di marketing virale che ha avuto luogo soprattutto su internet e ha garantito il successo inaspettato del film.
Queat’ultima puntava sostanzialmente a creare un clima di incertezza e dubbio tra il potenziale pubblico: si trattava davvero di un found-footage? Queste persone erano davvero morte?
Al fine di ad alimentare la presunta a veridicità del documentario, favorita già di per sé dal “coinvolgimento” dato dalla narrazione in soggettiva, la prima tattica fu quella di portare la gente a credere che i realizzatori del documentario, i tre giovani filmmaker protagonisti del film, furono dati davvero per “dispersi e presunti morti”, (gli attori hanno usato i loro veri nomi nel film, come ci riporta anche IMDB) facendo scomparire i tre dalla circolazione e avviando un massiccio passaggio di volantini per le strade, i quali recavano la foto dei tre ragazzi e la scritta “Missing”, cercando così di favorire un passaparola e portare il potenziale pubblico del film a interrogarsi sulla faccenda.
A questo proposito appare palese l’influenza della geniale intuizione di Deodato, che per circa un anno impose ai protagonisti di Cannibal Holocaust di sparire letteralmente dalla circolazione al fine di alimentare le voci che già correvano sul suo film (operazione riuscita ma alquanto beffarda dato che costò al regista le infondate accuse di omicidio e produzione di snuff movie, ma questa è un’altra faccenda che potete approfondire meglio qui).
Tuttavia, il punto di forza dell’intera campagna è sicuramente stato il noto sito web che i produttori hanno costruito ad hoc: esso, visitabile tutt’ora e rimasto tale e quale fino a poco prima dell’annuncio del nuovo Blair Witch, riportava informazioni sui tre ragazzi scomparsi, sul mito della strega di Blair e sul ritrovamento di alcuni terrificanti filmati.
Senza dubbio non si può dire che si è trattato di un metodo convenzionale per pubblicizzare un film, anche perché i produttori non hanno cercato di “vendere” il film tramite il sito, né hanno incoraggiato la gente a andarlo a vedere, semplicemente si sono limitati a fornire una storia “reale” e un’estensione della leggenda della strega di Blair raccontata nel film per il pubblico interessato; anche il trailer, che ne rimarca la qualità a basso budget, lascia molto all’immaginazione e, sul finale, reindirizza gli spettatori al sito web.
Oltre al suddetto sito, ai volantini e al trailer il team di marketing ha partecipato personalmente a discussioni sui vari forum online e chat (chiaramente sotto mentite spoglie) dove ha provveduto a condividere foto dei tre giovani dispersi, video e interviste sulla leggenda della strega di Blair, al fine di alimentare le voci sugli avvenimenti descritti nel film, spacciandoli come reali.
A poco a poco, il passaparola e le voci circa la misteriosa sparizione dei tre filmmaker e la conseguente diffusione delle riprese da loro effettuate, diventarono sempre più corpose e giunsero a compimento quando i produttori decisero di diffondere tre settimane prima del rilascio del film un documentario andato in onda su Sci-Fi Channel chiamato The Curse of the Blair Witch, offuscando così ulteriormente la linea di demarcazione tra finzione e realtà.
Questi sono stati sicuramente i punti chiave che hanno garantito il successo di The Blair Witch Project nel 1999. Al giorno d’oggi una tale campagna di marketing sarebbe quasi impossibile da replicare, soprattutto a causa della maggiore consapevolezza degli utenti di internet e dei social: dopotutto, alla fine degli anni ’90, Internet era ancora in una fase di scoperta e la gente non era affatto abituata a questo tipo di pubblicità attraverso il web, dunque e si è trattato del momento perfetto per capitalizzare la pubblicità gratuita tramite la rete.
A questo proposito un dato interessante fu quello delle visite al sito web: dopo il primo week-end di uscita del film, una pubblicià apparsa su una pagina di Variety Magazine affermò che il sito di The Blair Witch Project aveva ottenuto 21,222,589 click sino quella data. Se si considera che secondo Internet Live Stats solo circa 190 milioni di utenti avevano accesso a internet nel 1999 significa che oltre l’11% degli utenti ha visitato almeno una volta il sito della strega di Blair, fattore che andò così a consacrare il potere del marketing via Internet.
Infine, prodotto con un budget molto ristretto, di circa $ 25.000, il film ha continuato a guadagnare quasi 10.000 di volte il suo budget iniziale, ovvero 250 milioni di $; The Blair Witch Project è infatti il sesto film indipendente di maggiore incasso e il secondo film di maggior successo di tutti i tempi in termini di profitto. Sembra evidente che questi numeri incredibili sono stati possibili solo grazie a una campagna marketing che ha coltivato nel potenziale pubblico una curiosità tale da spingere le persone a invadere i cinema in massa, quando, di fatto, si è trattato di una film realizzato da due giovani emergenti, una troupe improvvisata, nessun nome noto e un intricato ma efficace passaparola.
Gran parte della gente ha creduto davvero che fosse tutto vero, a tal punto che probabilmente era dai tempi di Orson Welles e del suo War of the Worlds che non si assisteva a un lavoro di finzione talmente ben architettato da essere creduto reale. Non sorprende dunque che Hollywood abbia preso nota: i found-footage sono infatti diventati ben presto lo standard nel mondo dell’horror a basso budget e soprattutto la scritta ‘basato su eventi reali’ è la consueta frase d’apertura di ogni film di paura che si rispetti.
Negli ultimi anni è stato evidente come molti altri produttori hanno cercato di seguire la traccia lasciata dal fenomeno sconvolgente di questa campagna virale, cercando di utilizzare in modo originale i nuovi media: per esempio, per il film Jurassic World (2015), il team di marketing ha creato un sito per il Jurassic Park mostrato nel film, dove è possibile comprare i biglietti di ingresso “reali” e fare un tour virtuale del parco; anche Unfriended (2014) ci dà un buon esempio di questo tipo di marketing, per cui veri e propri account Facebook sono stati creati per i personaggi del film in modo da pubblicizzarlo tramite il popolare social. Un altro esempio piuttosto attuale può essere Cloverfield (2008), girato anch’esso come un found-footage, per il quale i produttori hanno creato moltissimi siti web che hanno cercato di vendere i fatti mostrati nel film come reali (perfino sul finale del film assistiamo alla bizzarra e assai realistica scena del “filmato nel filmato”).
Pare che anche la sotterranea campagna pubblicitaria dietro Blair Witch (conosciuto come The Woods fino a poco prima dell’annuncio al San Diego Comic-Con di quest’anno) di Adam Wingard, nei cinema in questi giorni, ricorda quella usata per il nostro The Blair Witch Project, a cominciare dalla pagina FB che denuncia la scomparsa della videomaker Lisa Arlington e concludendo con le live reaction registrate durante la prima del film.
Anche se probabilmente nessuno mai si è spinto e potrà mai spingersi oltre The Blair Witch Project, pubblicizzare i film su internet oggi è una pratica molto comune, come possiamo constatare tutti i giorni noi stessi tramite i numerosi trailer, interviste e recensioni che girano sul web.
Senza dubbio questo film ha avuto una delle più grandi campagne di marketing di sempre, definendo lo standard su come pubblicizzare qualcosa servendosi della convergenza mediale e, soprattutto, tracciando le linee guida di come sfruttare in maniera originale e creativa le nuove tecnologie, che sia internet nel 1999 o i social media oggi.
The Blair Witch Project nemmeno esisterebbe come lo conosciamo oggi se non avesse giovato di questo articolato piano di azione virale, solo in parte cinematografico: un film che ha voluto coinvolgere lo spettatore nell’intera esperienza e che non l’ha semplicemente posto su una poltrona, al cinema, a godersi un film.
Scritta da: Molly Jensen.