Regia: Federica Di Giacomo
Soggetto: Federica Di Giacomo
Sceneggiatura: Andrea Osvaldo Sanguigni, Federica Di Giacomo
Direttore della fotografia: Greta De Lazzaris, Carlo Sisalli
Produttore: Mir Cinematografica, Opera Film, Rai Cinema, France 3 Cinema
Montaggio: Aline Hervè, Edoardo Morabito
Distribuzione: I Wonder Pictures
Anno: 2016
Durata:89′
Paese:Italia, Francia
Vincitore al Festival di Venezia 2016 nella Sezione Orizzonti, Liberami segue Padre Cataldo, uno dei più conosciuti esorcisti della Sicilia, nel suo devoto e instancabile servizio: liberare i fedeli dai propri demoni.
A sentir parlare di esorcismo nella mente dei più prenderà forma il viso verdastro e pustoloso di Linda Blair, o quello di Padre Merrin che brandisce un crocifisso a mo’ di scudo. William Friedkin, con l’Esorcista, ha creato un assioma cinematografico, non solo relegando l’esorcismo al genere horror ma soprattutto formando l’immaginario simbolico di ognuno di noi in relazione a questa pratica.
Quello di Federica di Giacomo, antropologa, non è un film sul diavolo, né tantomeno un film sulla religione in senso stretto, è un film sulle fragilità umane. La regista riesce nell’impresa ardua di trattare un argomento delicato e poco riconosciuto dalla contemporaneità senza cadere nel pietismo o peggio ancora nella farsa grottesca.
“Per rispondere alle domande sempre più numerose di liberazione del maligno, tutte le diocesi francesi si sono dotate di almeno un esorcista.”
“In Spagna, l’arcidiocesi di Madrid cerca disperatamente di reclutarne altri 7.”
“A Milano il numero è aumentato da 6 a 12 […] è stato attivato un call center.”
Le parole che scorrono in bianco su nero sulle note dell’unica canzone non religiosa presente nel film (Lose Your Soul dei Dead Man’s Bones) e chiudono il sipario su Liberami, risultano quasi superflue, come a voler a tutti i costi sottolineare la veridicità e la portata del fenomeno presentato dalla Di Giacomo.
La potenza del film cresce insieme all’interesse dello spettatore e modifica il suo punto di vista attraverso una narrazione distante ma che non lascia mai trasparire alcun giudizio. Se in un primo momento lo scetticismo è d’obbligo, presto questo lascia il posto all’empatia verso dei personaggi così normali da creare turbamento.
Non siamo di fronte a forme di patologia psichiatrica canonica, pazzi non in grado di vivere in società completamente estranei a quel che succede nel mondo circostante, da cui sarebbe facile prendere le distanze. Gli ‘impossessati’, o sedicenti tali, sono persone comuni capaci di interagire e discutere, anche della loro possessione, con amici e parenti.
È il costante e naturale fluire tra vita quotidiana e momenti di altissima tensione durante le pratiche sacrali che dà il ritmo al film, il quale pecca, per questo, di monotonia. La ripresa di rituali sempre uguali, ma sempre agghiaccianti, non serve tanto ad aggiungere elementi all’analisi del reale quanto a non lasciare un attimo di tregua allo spettatore. È la psiche del pubblico il vero target della Di Giacomo. Le naturali linee di separazione tra sacro e profano, pazzia e normalità, sono sfumate ad arte ed anche i peggiori miscredenti sono spinti a rivalutare i limiti tra ciò che è reale cosa non lo è.
Di Giacomo pone l’attenzione sulla rilevanza sociale dell’esorcismo. Vengono mostrati rituali privati e messe comunitarie, rimuovendo il velo di segretezza imposto dalla chiesa sulle sue pratiche più anacronistiche. C’è da chiedersi se sia davvero così assurdo che qualcuno possa crederci e forse è questa la domanda implicita che il film ci propone. In un periodo di crisi e smarrimento, come quello che vive l’uomo contemporaneo, una figura come quella del prete esorcista, il flemmatico e gentilissimo padre Cataldo, rappresenta un porto sicuro per chi vive ai margini. Divertentissima la scena in cui il padre è intento a svolgere un esorcismo telefonico con una donna: alla fine del rito, tutto torna tranquillo e ci si scambia gli auguri di Natale.
La lavorazione del film è durata 3 anni e lo scorrere del tempo è visibile nell’esperienza di uno dei personaggi principali del documentario: Giulia. Il quadro che ci propone la regista sembra quello di un classico caso psichiatrico di Freud: padre bigotto e sessuofobo che crede che la figlia sia stata fatturata dalle donne -tentatrici- che ha rifiutato. Niente di più banale… almeno fino a quando non assistiamo alle scene di possessione di Giulia; la conclusione della vicenda, ben lontana dal sciogliere i nostri interrogativi, ne aggiungerà di nuovi.
I personaggi che si rivolgono a padre Cataldo sono tutti molto efficaci nel rappresentare le diverse sfaccettature del disagio e dell’isolamento individuale: le casalinghe, i bambini iperattivi, i disoccupati ed un giovane profondamente problematico che, con i suoi gesti e discorsi, risponde implicitamente a molte delle nostre domande. Spesso la chiesa è l’ultima spiaggia per queste persone che non hanno idea di come debellare il proprio male, o convivere con esso, non riuscendo nemmeno a dargli una forma. Allora il volto di Satana, quello di padre Cataldo, l’assegnare un nome e una cura alle sofferenze provate sembra una prospettiva intrigante.
I contrasti e di discrepanze della Sicilia moderna, grazie all’incredibile cura del dettaglio nelle riprese ed a scelte registiche puntuali, si fanno emblema e non unica manifestazione di un problema che ha consistenza globale. Che il primo ad insegnare a Federica di Giacomo l’arte del documentario sia stato Wiseman l’ho già detto?
Scritto da: Ilaria Micella