A distanza di 15 anni dal quarto capitolo della saga e di ben 42 anni dal primo, torna al cinema Indiana Jones, il personaggio creato da George Lucas e Phil Kaufman e reso iconico dal volto di Harrison Ford.
È superfluo ribadire l’importanza della saga, che ha messo le basi per un certo cinema di avventura che, sfortunatamente, è andato a scomparire col passare del tempo.
Il quarto capitolo della saga, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, del 2008, aveva lasciato molti fan interdetti, sia per il film in sé, sia per il fatto di riesumare una saga così importante a distanza di quasi vent’anni, affidando poi il ruolo di protagonista a un Harrison Ford non più giovane come un tempo (aveva 64 anni). Un ruolo, tra l’altro, in cui la componente fisica e d’azione è fondamentale.
Nonostante tutto, credo che Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo sia un film riuscito, grazie anche ovviamente alla mano di un maestro come Spielberg alla regia. Inevitabilmente però, si sentiva e si vedeva la stanchezza di un personaggio sempre meno al passo con i tempi.
Ed è proprio di questo che tratta Indiana Jones e il quadrante del destino, un film, lo dico da subito, molto più interessante e addirittura importante di quanto avrei sperato.
I dubbi riguardo al quinto capitolo nascevano essenzialmente da due elementi: innanzitutto, è la prima volta che un film di Indiana Jones non è diretto da Steven Spielberg. Questa volta la regia è stata affidata a James Mangold, regista altalenante, ma che ci ha regalato grandi film, su tutti Logan.
Oltre al cambio di regia, riemergevano le preoccupazioni riguardo a Harrison Ford, ormai ottantenne, alle prese con un ruolo d’azione.
Fortunatamente, Mangold, anche co-autore della sceneggiatura, è riuscito a giocare bene le sue carte, affrontando apertamente, con molta intelligenza, la questione dell’età del protagonista.
Indiana Jones e il quadrante del destino, in effetti, riflette proprio sul passare del tempo, tracciando due parallelismi: quello tra l’attore e il personaggio (Harrison Ford e Indiana Jones) e quello tra la Storia (o meglio il mestiere dello storico) e il cinema.
In questa semplice idea di base sta la forza del film che, esattamente come il genere cui appartiene, nel 2023, risulta più che mai anacronistico. In un momento in cui non si fa altro che parlare di tecnologia, delle grandi possibilità e dei rischi ad essa legati, anche nel contesto dell’industria cinematografica, è paradossale che a fare il punto della situazione sia proprio un film che guarda verso il passato piuttosto che verso il futuro.
Mangold ci chiarisce subito le sue intenzioni, dopo un incipit di una ventina di minuti, ambientato sul finire della seconda guerra mondiale, ci porta al 1969 e in poche scene ci fa perfettamente capire quanto tempo sia passato per Indiana Jones.
Dalle casse di uno stereo risuona la musica dei Beatles, mentre gli Stati Uniti festeggiando il ritorno degli astronauti dell’Apollo 11. L’uomo è arrivato sulla Luna e il mondo intero volge lo sguardo verso il futuro, disinteressato ormai al passato.
Vi ricordate quando, ne I predatori dell’arca perduta, tutti gli alunni (e soprattutto le alunne) della classe di Indiana Jones erano infatuati di lui? La storia suscitava interesse, era attraente addirittura.
Ora Indiana Jones si ritrova davanti a una classe totalmente disinteressata e viene fisicamente spostato per far spazio a un notiziario riguardante il ritorno degli astronauti.
È chiaro insomma, Indiana Jones ha fatto il suo tempo, è relegato a un passato glorioso che ormai non esiste più. Il mondo è ora concentrato sul futuro.
È così che Mangold dà inizio alla sua riflessione metacinematografica su cosa rappresenti oggi Indiana Jones. Proprio come nel 1969, anche oggi stiamo guardando verso il futuro. Si parla sempre di più di Intelligenze artificiali e del ruolo che hanno nel Cinema (incluso in questo nuovo Indiana Jones, ma ci torneremo a breve).
L’industria è dominata dai cinecomic, in particolare quelli Marvel, e il filone di cui Indiana Jones è capostipite è andato via via a scomparire. Quali sono gli ultimi titoli ascrivibili al filone che ci ricordiamo? Forse Il mistero dei templari. Nel 2022 è uscita una serie facente parte della saga cinematografica del Mistero dei templari, è stata cancellata dopo la prima stagione.
Lo stesso Indiana Jones e il quadrante del destino non sta riscuotendo il successo sperato al botteghino.
Insomma, per Indiana Jones è giunto il momento di andare in pensione, e tutto il film è giocato sul suo essere inadatto alle situazioni in cui si trova, sul suo non essere più come un tempo.
E, non a caso, l’oggetto del desiderio di tutti i personaggi del film, ciò che dà inizio alla trama, ha proprio a che fare col tempo. Si tratta di un marchingegno costruito da Archimede, che permette di viaggiare nel tempo. È un oggetto tanto desiderato e temuto, perché potrebbe portare a conseguenze drammatiche. Il villain de film ad esempio, come sempre un nazista, lo vuole utilizzare per cambiare le sorti della seconda guerra mondiale.
Continuando a tracciare il parallelismo metacinematografico, è chiaro che ciò che ci permette di viaggiare nel tempo, attualmente, è proprio l’intelligenza artificiale di cui parlavamo poco fa.
Torniamo alla prima sequenza del film, quella ambientata nel 1944. In Indiana Jones e l’ultima crociata, avevamo un incipit ambientato nel 1912, in cui il protagonista veniva interpretato da River Phoenix.
Questa volta, invece, si è optato per un ringiovanimento di Harrison Ford ad opera di un’intelligenza artificiale, Fran, sviluppata da Disney.
Va detto che la pratica del ringiovanimento digitale non è nuova ma il progresso tecnologico degli ultimi anni, e in particolare il ruolo che hanno assunto le intelligenze artificiali, introduce delle novità importantissime per tutta l’industria cinematografica.
Pensiamo al caso di The Irishman, in cui Scorsese aveva deciso di ringiovanire digitalmente De Niro e Al Pacino. Il risultato non era completamente convincente, la finzione era evidente.
I primi 25 minuti del nuovo Indiana Jones invece sono spaventosamente convincenti e ci mettono di fronte a un Harrison Ford nel pieno della sua giovinezza.
Paradossalmente, è proprio in un film che guarda al passato, che abbiamo forse la più importante applicazione, ad oggi, della tecnologia che, con buona probabilità, sconvolgerà il mondo del cinema. Ed è forse anche questo il motivo per cui Indiana Jones e il quadrante del destino è uno dei film più costosi della storia del cinema.
Ultimamente se ne sta parlando molto perché è ormai evidente che i tempi sono maturi, basti pensare alla prima puntata della nuova stagione di Black Mirror, ma rimando soprattutto allo stupendo e poco conosciuto The Congress di Ari Folman.
In ogni caso Mangold decide di relegare l’utilizzo di questa tecnologia ai primi 25 minuti del film, come fosse un benchmark di un nuovo motore grafico, come a dire: “questo è ciò che attualmente si può fare”.
Poi torna all’Harrison Ford di adesso e all’Indiana Jones del 1969, per cercare, romanticamente di dare una chiusura alla storia di uno dei personaggi più iconici della storia del cinema e rendere parallelamente omaggio a uno degli attori più importanti del cinema americano che, negli ultimi anni, ha visto tornare sui grandi schermi tutti i suoi ruoli entrati a far parte della cultura popolare, tra i sequel di Star Wars, Blade Runner 2049 e ora Indiana Jones.
Ed è proprio questa la parte più convincente perché, nonostante i limiti (su tutti un utilizzo davvero scontato dei viaggi nel tempo), il romanticismo di Mangold è autentico e sentito, come lo era nel raccontare la fine di Wolverine in Logan.
Anziché fare tutto un film con Harrison Ford ringiovanito digitalmente, si concentra sull’attore in carne e ossa, scelta che viene anche riportata ironicamente all’interno del film, quando il protagonista ha la possibilità di restare nel passato, di vivere all’interno della storia che ha sempre studiato e ricercato, ma viene forzatamente riportato al presente dalla co-protagonista.
Il finale a casa di Indiana Jones poi mette il punto, con quella che sembra quasi una riunione di famiglia, un ritorno dei personaggi che hanno accompagnato gli spettatori nel corso 40 anni.
Alla fine però, Indiana Jones non lascia il cappello appeso al chiodo, lo riprende, lasciando aperta la possibilità di nuove avventure.
E la domanda sorge spontanea: nuove avventure con l’Harrison Ford ringiovanito?
Ora che è chiaro che sarebbe possibile farlo, quanto ci vorrà per vedere il primo film totalmente realizzato in questo modo?
Al di là delle varie problematiche legali ed etiche cui porta l’utilizzo di questa tecnologia (in primis, tutto ciò che riguarda il diritto di sfruttamento dell’immagine di un attore), un’altra questione mi sembra particolarmente importante: il cinema ha la capacità, quasi magica, di rendere immortali gli attori, imprimendo fisicamente le immagini, prima su pellicola, poi sui sensori delle macchine digitali.
Gran parte del fascino del cinema, deriva proprio da questa capacità di immortalare dei momenti. E così, potremo sempre vedere Harrison Ford quarantenne interpretare Indiana Jones e tornare indietro nel tempo per due ore.
Cosa vorrebbe dire invece poter creare nuovi momenti, mai realmente esistiti, e fingere che siano stati immortalati? Perdere totalmente il legame fisico con ciò che sta davanti alla macchina da presa? Attenzione, non si parla di semplici effetti digitali, ma di fingere che degli attori abbiano interpretato certi ruoli in momenti passati della loro vita.
Indiana Jones e il quadrante del destino è un film importante perché ci mette di fronte allo stato dell’arte di questa tecnologia ed è quasi bipolare nel far coesistere un cinema ormai relegato al passato e ciò che probabilmente sarà il futuro dell’industria cinematografica.
Sono molte le domande che pone e credo che le risposte non tarderanno molto ad arrivare.
Scritto da: Tomàs Daniel Avila Visintin