Anche se il metodo storiografico ha ormai abbandonato l’annalistica, in quanto criterio di analisi obsoleto, vago e che fa degli avvenimenti dei compartimenti stagni senza rendere giustizia al legame di causa-effetto che li connette, si può comunque affermare che, tralasciando la Storia (quella con la “S” maiuscola), nella storia della musica contemporanea vi siano delle date fondamentali, spesso legate a delle uscite cardine di album che hanno più o meno sconvolto il panorama musicale che fino a quel momento dominava incontrastato.
Si prenda in considerazione il 1965, ad esempio. La caratteristica interessante di questa particolare data, oltre ad aver consacrato la cultura hippie e inaugurato “ufficialmente” l’era psichedelica con la pubblicazione di Rubber Soul, vide una progressiva, ma allo stesso tempo marcata, biforcazione stilistica, musicale e attitudinale, nei confronti della realtà che ruotava attorno al genere umano.
Da una parte vi era la visione positivista del già citato movimento hippie, che predicava pace, amore ed espansione delle sensazioni attraverso le più svariate sostanze allucinogene, dall’altra vi era una netta minoranza di “gentaglia” che rifiutava non tanto gli ideali di per sé, ma era fermamente convinta dell’impossibilità del loro raggiungimento, dando una visione sarcastica, se non, in casi estremi, nichilista del mondo che li circondava.
In particolare, due furono i gruppi che più o meno volutamente cozzarono con gli ideali hippie che si erano diffusi dalla ridente cittadina di “Frisco”: i Mothers of Invention, sotto le redini di un giovane Frank Zappa – si veda We’re Only in It for the Money (1968), la cui copertina richiama esplicitamente quella di Sgt. Peppers’ dei Beatles – che misero in ridicolo l’intero movimento delineandone vizi ed incongruenze, e i Velvet Underground che, con il loro magistrale album di debutto The Velvet Underground & Nico (1967), posero le basi non ad uno, ma ad interi generi musicali (basti pensare al punk, al noise rock e allo shoegaze), risultando così il loro capolavoro uno dei dischi più influenti, se non addirittura il più influente, dell’ultimo mezzo secolo.
La musica che i Velvet – fondati nel cuore della Grande Mela proprio nel 1965 e guidati dal loro eccentrico frontman Lou Reed – offrivano ai propri bizzarri seguaci era sporca, grezza, cruda, decadente, dai toni depressivi e dai testi i cui argomenti spaziavano dalle perversioni sessuali, alle droghe, al suicidio.
Con questa premessa non è difficile capire il motivo per cui il tour californiano che avrebbe dovuto consacrare la band fu un totale disastro, tant’è che il loro principale sponsor, Andy Warhol, abbandonò l’idea di far di loro i nuovi Beatles.
Il gruppo però non si arrese e, libero dei gioghi del loro Mecenate, sfornò altri tre album, ognuno stilisticamente diverso dall’altro, decretando la completezza di una band, funestata da improvvisi cambi di line-up, alla quale nell’immediato non furano riconosciuti i dovuti meriti.
Lou Reed di conseguenza, che voleva a tutti i costi raggiungere il rango di rock star, nel 1970 decise di intraprendere la carriera solista e per almeno i primi cinque anni visse “di rendita”, re-incidendo canzoni scritte ma mai pubblicate sotto il nome dei Velvet, registrando così frettolosamente il timido album d’esordio omonimo nel 1972. Tuttavia, il disco che gli permise di ottenere la notorietà arrivò solo qualche mese dopo: il celebre Transformer, estremamente orecchiabile e da un certo punto di vista molto lontano dalla tradizione sperimentale di Reed, sarebbe presto diventato un album cult del glam grazie soprattutto alla produzione di David Bowie, che nei suoi più recenti album si era dichiaratamente ispirato alla musica dei Velvet Underground e voleva così ricambiare il favore aiutando un amico in un momento di particolare difficoltà.
Quello che però oggigiorno è considerato da alcuni critici come il punto chiave, il picco della carriera del “Rock N Roll Animal”, è il più introspettivo, artisticamente più rilevante e più vicino alla tradizione “velvetiana” terzo long-playing Berlin, rilasciato nel lontano luglio 1973.
Come forse è immediatamente intuibile dal titolo, Reed decise di ambientare la sua successiva opera nella città tedesca divisa dalla Guerra Fredda, che nel 1977 avrebbe ospitato i mostri sacri del glam alla ricerca d’ispirazione e di un nuovo sound: è il caso dello stesso Bowie, di Brian Eno e di Iggy Pop.
Berlin è il concept album che rappresenta un ritorno alle origini, anche attraverso un’ulteriore ripresa di demo scartati dai Velvet (i.e. Men of Good Fortune, Oh Gin, Stephanie Says, Sad Song) e di conseguenza dei temi così cari alla band, che erano stati drasticamente abbandonati nel più sereno e spensierato Transformer.
Viene narrata, infatti, in maniera molto intima, profonda, a tratti autobiografica, una storia d’amore che, seppur inizialmente caratterizzata da una forte passione, degenera irrimediabilmente, diventando scenario di episodi di violenza domestica, abuso di droghe, autolesionismo, raggiungendo l’apice del climax con l’estremo gesto del suicidio di uno dei due partner.
Una novità però c’è rispetto alle altre produzioni di Lou, sia soliste che non: Berlin ha una forte componente orchestrale che porta Reed ad occuparsi semplicemente delle parti di chitarra acustica, avendo al suo fianco musicisti del calibro di Jack Bruce, Tony Levin e Steve Winwood, per citare alcune guest stars; il tutto senza però rinunciare a strumenti distorti che hanno caratterizzato il suo sound tipicamente, come in seguito fu definito, proto-punk, presenziando durante la registrazione i due chitarristi Dick Wagner e Steve Hunter, che lo avrebbero anche accompagnato fedelmente in tour per qualche anno.
Il ritmo incalzante dei fiati e il fragore sprigionato dalle chitarre, incorniciati diligentemente dalle linee di basso e dalle melodie del piano, trovano la loro perfetta realizzazione nel binomio How Do You Think It Feels/Oh Jim, che simbolicamente rappresenta il punto di svolta dell’album, non solo musicalmente ma anche concettualmente, marcando un netto confine tra il relativamente più accessibile, rockeggiante e, per così dire, più positivo Lato A e l’oscuro e ferocemente negativo Lato B.
La title-track, ri-arrangiata in tonalità diversa e in una versione più breve rispetto a quella già presente nell’album di debutto, e Caroline Says I sono brani la cui atmosfera musicale non sembra presagire la cupezza che caratterizzerà i pezzi seguenti.
Eppure già nel terzo brano, Men of Good Fortune, è possibile rintracciare nell’atteggiamento del protagonista un disinteresse, che sembra portarlo addirittura all’estraneazione, nei confronti della società moderna.
È da Oh Jim, però, che il tono assunto nelle canzoni successive diventa verso dopo verso sempre più avvilito e angosciato, recitando nelle battute finali, con l’accompagnamento della sola chitarra:
“Oh Jim
How can you treat me this way? […]
You know you broke my heart
Ever since you went away
When you look through the eyes of hate
Oh oh oh oh”
“You can beat me all you want to / But I don’t love you anymore” urla Caroline nella seconda parte di Caroline Says, appena qualche istante dopo la conclusione del Lato A.
Le conseguenze della violenza non sono solo fisiche e psichiche, difatti in The Kids i bambini della coppia vengono portati via dagli assistenti sociali “perché dicevano”, parafrasando il testo, “che non era una brava mamma”. La voce rotta di Lou segue l’andamento ipnotico della chitarra acustica, assoluta protagonista del brano, e gli occhi della madre non possono far altro che riempirsi di lacrime, mentre l’io narrante rimane sempre più distaccato e insensibile innanzi all’accaduto e i bambini, sul finale, chiamano disperatamente la loro madre, piangendo.
Il colpo di grazia, tuttavia, arriva sia per il protagonista che per l’ascoltatore, con The Bed. La voce quasi sussurrata racconta del posto che, mentre una volta vedeva scene di vita quotidiana – come il coricarsi la notte, ora è teatro dell’agghiacciante suicidio di Caroline.
I commenti dell’ormai alienato narratore e protagonista si riducono a una manciata di sospiri seguiti da un “What a feeling”, per poi concludere con una acre ma oltremodo sincera constatazione:
“I never would’ve started if I’d known
That it’d end this way
But funny thing I’m not at all sad
That it stopped this way”
Sad Song, la traccia che conclude il disco, è un triste epilogo che, quasi con la stessa autorità di Rock’n’roll Suicide, eleva la sfortunata vicenda della coppia a qualcosa di superiore, quasi come a garantirne solennità o addirittura una qualche sacralità.
Pochi sono quegli album che riescono a trasmettere una così vasta gamma di sensazioni e un misto di così innumerevoli sentimenti contrastanti. Berlin è un disco che sembra spingere a ripudiare la decadenza descritta, che viene fatta toccare con mano all’ascoltatore, ma non tanto per sensibilizzarlo al tema presentato, bensì per attrarlo inizialmente in maniera subdola ad esso, risvegliando in lui il suo assopito nichilismo, per poi convincerlo in un secondo momento che quella spiacevole condizione sia l’ultima situazione al mondo che vorrebbe vivere e sperimentare sulla propria pelle.
Appena l’LP uscì, la critica non fu affatto gentile nei suoi confronti: fu definito come il prodotto musicale più deprimente mai uscito fino ad allora e, intendiamoci, molto probabilmente lo fu; eppure, è impensabile che per anni ci si sia ostinati a negarne la validità artistica e la complessità concettuale e musicale, solo perché non avrebbe mai fatto breccia in un mercato sempre più alla ricerca di musica orecchiabile e disimpegnata.
Le conseguenze furono immediate e Lou Reed, senza alcun prospetto di vendita, si vide in un certo senso costretto a ritornare su sentieri più accessibili a un vasto pubblico. Tuttavia, se si scorre la sua discografia, si nota che nel 1989 un altro nome di città venne chiamato in causa, New York. Una città non scelta casualmente, una città che quasi 25 anni prima aveva visto la nascita dei Velvet Underground e che adesso rendeva di nuovo omaggio a quelle sonorità ormai sepolte da anni, ospitando un’altra storia in cui “Romeo aveva Giulietta e Giulietta aveva Romeo”.