Il peso della carta

In Musica, Tancredi by scheggedivetroLeave a Comment

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Doyle Martin, Brian Busch e Bobby Markos: tre nomi che potrebbero non dire nulla alla maggior parte dei musicofili, appartenendo, di fatto, a tre individui ignoti, originari del Northwest Indiana e provenienti dalla classe operaia.

Cerchiamo un attimo però di inquadrarli meglio. Il primo è uno smilzo tipo occhialuto, sempre vestito di nero e dai capelli castani, suona la chitarra e si diletta anche nel canto; Mr. Busch è un uomo tarchiato dalle braccia poderose, ottime per picchiare vigorosamente sui tamburi. Il terzo e ultimo ha una lunga barba bionda e qualche nozione di basso, anche se a dire il vero in alcune foto è sprovvisto di peluria facciale e, ora che ci penso, non sono del tutto sicuro che abbia alcuna formazione musicale, ma devo dire che se la cava abbastanza bene.

Questi tre ragazzotti hanno dato vita nel 2012 a una band praticamente sconosciuta, che ha debuttato nell’intricato mondo della musica con un EP (Infinity, 2013), che già dimostra una qualche intenzione di comunicare una certa personalità, ma risulta forse troppo timido e anonimo da poter riuscire a trasmettere con successo qualsiasi cosa la band abbia in serbo.

Il gennaio 2015 vede però l’uscita del loro primo LP di debutto, Further Out, definito da Pitchfork come un album “dall’arrangiamento minimale, moderatamente cupo ed estremamente rumoroso”. Questa limpida descrizione è certamente più adatta di una qualsiasi etichettatura di genere che, contrariamente all’immediatezza espressiva dell’opera, risulta difficile da definire, abbracciando elementi di slowcore ed emo, innanzi tutto, ma andando anche a pescare all’interno dello shoegaze, dello stoner(-metal), dell’indie e dell’alt rock. Di conseguenza il risultato stilistico può sembrare in un primo momento vago e indistinto.

Tuttavia, pur sembrando immerso in uno status di apparente genericità, l’album ha una forte personalità e una consistenza emotiva fuori dal comune, lasciando dietro di sé tutti gli stili da cui prende spunto e concentrandosi con fermezza nel toccare le corde ricettive dell’ascoltatore, al fine di infondergli i propri messaggi di malessere, incomprensione e malinconia, rispecchiati anche piuttosto bene dalla copertina, raffigurante in controluce un uomo sdraiato sulla sponda sassosa di quella che, più che un lago di minute dimensioni, potrebbe semplicemente raffigurare un’ampia pozza d’acqua putrida.

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Paperweight, la traccia d’apertura dal testo essenziale e astruso, trasmette fin da subito una rabbia addolorata, emessa da Martin attraverso la sua voce melliflua. La peculiare contrapposizione tra voce e distorsione estrema della chitarra, diluita da un tempo così lento da fare quasi invidia a Dopesmoker degli Sleep, differisce sensibilmente da quella dello shoegaze, lasciandoti, più che in un mare di mielosi sogni, in un freddo deserto di aride sensazioni. Queste percezioni si ripresentano puntuali ad ogni canzone, ma vengono enfatizzate specialmente in questa particolare traccia, anche se è possibile riviverle in Asymmetrical, altro punto saliente del disco che oltretutto presenta un testo percettibilmente più sviluppato.

L’impatto emotivo delle canzoni tuttavia, proprio a causa della ciclicità che si va a delineare, è a volte anestetizzato dalla prevedibilità di alcuni passaggi musicali che sembrano ripetersi, specialmente nella parte centrale del disco, e durante i primi ascolti si fatica a distinguere alcune tracce da altre o persino ricordare qualche minuto dopo che “aspetto” avesse il brano appena udito.

Un altro eventuale – nonché opinabile – difetto si può ritrovare nelle due tracce strumentali Mesmer e Sylph, che non riescono molto nell’intento di variare i temi musicali dell’album, facendo calare l’attenzione e tentando anche i più strenui sostenitori dello “ascolto tutto o nulla” a muovere la puntina avanti di qualche solco oppure, su apparecchi più moderni, a passare direttamente alla canzone successiva.

Eppure, nonostante l’album presenti molti punti potenzialmente perfezionabili, esso riesce con un discreto successo a comunicare i suoi intenti, riprendendo la retta via nelle ultime tracce e dimostrando di non essere un futile esperimento avviato con due o tre dei pezzi migliori, a cui poi accodare un’altra mezza dozzina di brani giusto per raggiungere i tre quarti d’ora di lunghezza.

Oltre alla già “elogiata” Asymmetrical, il finale ci delizia con due composizioni degne di nota, quali Clean Moon, che fotografa nel titolo un’evidente attrazione, raccontata già in diverse canzoni, per la notte e per la luna, oltre a fare riferimento alla condizione della working class americana, e Deep Sea Station, traccia conclusiva.
Quest’ultima gemma vede Busch seriamente impegnato nel suo (secondo) mestiere di batterista, imprimendo all’intero pezzo un’inaspettata grinta, non particolarmente contemplata nel resto dell’opera, e un barlume di quasi-speranza che va a rimpiazzare per i minuti finali il dilagante negativismo, che rimane tuttavia il fulcro indiscusso dell’album.

Insomma, Further Out dei Cloakroom è sicuramente un esordio degno di nota, che lascia l’ascoltatore piuttosto incuriosito sugli eventuali sviluppi del cursus honorum di questa giovane band, auspicando che possa regalare al mondo della musica nuove prospettive che ripaghino il debito contratto con le innumerevoli scene musicali cui si è ispirata.