Icone e mercato delle immagini | Il caso dell’attentato a Trump

In Tomàs Avila by Tomas AvilaLeave a Comment

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Indice:

  1. Introduzione
  2. L’appiattimento dei punti di vista
  3. Perché una foto e non un video
  4. Perfezione formale
  5. Stratificazione semantica
  6. Tra verità e finzione
  7. Decentralizzazione dei punti di vista come forma di resistenza

1. Introduzione

Di fronte alle immagini dell’attentato che è quasi costato la vita a Donald Trump, è inevitabile essere investiti da un turbinio di pensieri e sensazioni ai quali è possibile tentare di dare una forma solamente a mente fredda, a debita distanza.

Il flusso mediatico ininterrotto di immagini, video, analisi dell’accaduto (tra versioni ufficiali e teorie del complotto), lascia, in prima battuta, spaesati, come sempre in questi casi.

Domina la sensazione di assistere a qualcosa di surreale, di inverosimile.

A distanza di qualche giorno, iniziando a mettere in ordine i frammenti di una vicenda complessa che, senza dubbio, verrà discussa per anni, si possono cominciare a trarre le prime conclusioni.

O, se parlare di conclusioni è troppo affrettato, si può tentare di analizzarne alcuni aspetti.

Uno di quelli che saltano immediatamente all’occhio, è proprio quello della copertura mediatica dell’attentato.

Un avvenimento in cui la componente visiva è predominante e che, inevitabilmente, ha visto trionfare immagini e video su qualsiasi altro tipo di contenuto mediale.

Il tentativo di omicidio è avvenuto durante un comizio elettorale di Trump, presso una fiera agricola a Meridian, in Pennsylvania.

Trattandosi di un evento pubblico, si può intuire quanto la copertura mediatica fosse ampia.

Grazie all’immediatezza a cui il digitale ci ha abituati, nel giro di pochi minuti siamo stati sommersi da un flusso ininterrotto di contenuti mediali di ogni tipo.

Foto e video soprattutto, come si diceva, attraverso i quali è stato possibile ricostruire minuziosamente la dinamica dell’attentato, grazie a una molteplicità di punti di vista differenti ormai propria di un mondo digitalizzato in cui chiunque è, oltreché fruitore di contenuti, anche produttore di contenuti.

Fatto, quest’ultimo, che vede nell’11 settembre la sua più emblematica esemplificazione, tanto da segnare un punto di svolta, anche a livello visuale ed estetico, come coglieva intelligentemente Matt Reeves nel disaster movie Cloverfield, che faceva propria l’estetica digitale dei video dell’11 settembre.

Ebbene, come vedremo in seguito, mi sembra che i punti di contatto tra quello che forse è stato l’avvenimento più importante dei 2000 (sicuramente quello che i è impresso maggiormente nell’immaginario collettivo, quantomeno in quello occidentale) e l’attentato a Trump siano molteplici e che riflettano una stessa logica nel trattare le immagini e nel rappresentare i fatti di cronaca.

2. L’appiattimento dei punti di vista

Cominciamo dal constatare quanto, a livello mediatico, siano state riproposte, essenzialmente, le stesse immagini dell’attentato. Alla faccia della democratizzazione del medium digitale e alla decentralizzazione dei punti di vista.

Col passare delle ore e in seguito dei giorni, tutti i quotidiani, i siti di informazione, i telegiornali e via discorrendo, hanno trattato l’argomento ed è evidente quanto la possibile ed effettiva molteplicità dei punti di vista, sia stata appiattita, con il risultato di un esiguo numero di prospettive. Praticamente, sempre le stesse.

Vediamo una carrellata di prima pagine dei giornali:

Niente di nuovo, rimando all’analisi fatta da Clément Chéroux a proposito della copertura mediatica del’11 settembre nel saggio Diplopia[1], sul quale torneremo più volte in seguito.

Non sono in grado di fare un’analisi statistica delle prime pagine di tutti i quotidiani in giro per il mondo, a differenza di quanto fatto in Diplopia, ma da una veloce rassegna di prime pagine, mi sembra che il punto di vista dominante sia quello di Evan Vucci, fotogiornalista statunitense già vincitore di un premio Pulitzer nel 2021, per le fotografie scattate in occasione delle rivolte che sono seguite all’assassinio di George Floyd.

Le proteste in seguito all’assassino di George Floyd

È a Vucci che si deve la fotografia che, nel marasma di immagini che sono state prodotte, si è andata a imporre come l’immagine per eccellenza del tentato omicidio di Trump.

Una fotografia che è stata immediatamente definita, giustamente, iconica. Che ha dato fin da subito la sensazione, agli spettatori, di un’immagine che rappresenta la storia nel suo farsi e che allo stesso tempo trascende il contesto circoscritto dell’attentato, facendosi simbolo di qualcosa di molto più vasto, portatrice di valori che, molto probabilmente, sopravvivranno a questa campagna elettorale e allo stesso Trump.

È ancora presto per dire se si stamperà nell’immaginario collettivo statunitense come è stato per altre fotografie iconiche ma i presupposti, mi pare, ci sono tutti.

L’iconica fotografia di Vucci

Come sempre, in questi casi, sorge spontanea una domanda: come mai questa foto piuttosto che una delle mille altre che sono state scattate?

La risposta non è semplice né, tantomeno, univoca. Possiamo però provare ad avanzare delle ipotesi.

Prima di passare ad analizzare la fotografia, accenniamo solo velocemente a una delle motivazioni fondamentali, individuate da Chéroux in Diplopia, che portano all’appiattimento e all’omologazione dei punti di vista: la concentrazione mediatica.

L’accentramento del potere nell’industria mediatica, è definita da Chéroux come una “situazione quasi oligopolistica, dove solo cinque conglomerati tengono le redini della quasi totalità dell’industria dei media, dove il sistema di libera concorrenza sembra essere stato, se non abolito, quanto meno negoziato”[2].

In questo contesto, “le questioni relative alla qualità del contenuto risultano di poca importanza, se confrontante alle logiche di profitto”[3].

Prosegue scrivendo che “Ciò che vale per il testo, vale anche per l’immagine. In seno alla stampa, le agenzie fotografiche non sono sfuggite a questa logica della concentrazione”[4].

Fatta questa premessa, concentriamoci ora sulla fotografia di Vucci.

3. Perché una foto e non un video

Un primo aspetto che potrebbe sorprendere è il fatto che, a imporsi sul vasto flusso di contenuti, sia stata una fotografia e non un video.

Il motivo non è da ricercarsi nella scarsità di fonti: come abbiamo detto, sono circolati immediatamente innumerevoli video dell’accaduto.

Susan Sontag ha scritto a proposito che “Le immagini non-stop (televisione, streaming video, film) sono il nostro ambiente, ma quando si tratta di ricordare, la fotografia ha un appiglio più profondo. La memoria congela i fotogrammi; la sua unità di base è la singola immagine. In un’epoca di sovraccarico di informazioni, la fotografia fornisce un modo rapido per apprendere qualcosa e una forma compatta per memorizzarla”[5].

Una fotografia ci permette di cristallizzare degli eventi storici complessi, lo sanno bene i reporter di guerra protagonisti di Civil War di Alex Garland, in cerca della fotografia simbolo della fine del regime dispotico instaurato dal presidente degli Stati Uniti nell’ucronia messa in scena dal regista.

Certo è che non tutto si presta a essere fotografato e quindi cristallizzato. Chéroux faceva notare come fossero state preferite, per raccontare l’11 settembre, le fotografie rappresentanti la nuvola di fumo che si innalzava in cielo dalle Torri Gemelle, piuttosto che il momento dell’impatto degli aeroplani.

Questo perché l’impatto degli aeroplani viene raccontato meglio attraverso i video, in quanto evento caratterizzato dal dinamismo, dal movimento. In foto non rende bene quanto l’imponente staticità delle Torri Gemelle e della nuvola di fumo.

Questo può essere uno dei motivi per cui, un’altra delle fotografie che sono girate molto in seguito all’attentato a Trump, non ha avuto lo stesso successo di quella di Vucci.

Si tratta della fotografia di Doug Mills, un altro fotogiornalista, vincitore del premio Pulitzer, che è riuscito a immortalare la traiettoria del proiettile che ha sfiorato l’orecchio di Trump.

Anche in questo caso è applicabile il discorso che Chéroux aveva fatto riguardo all’impatto degli aeroplani contro alle Torri Gemelle.

La traiettoria del proiettile, un oggetto in rapidissimo movimento, non è particolarmente efficace in foto, non quanto lo è in video.

La fotografia di Doug Mills

Certo, è impressionate osservare la cristallizzazione di quel momento. Il millesimo di secondo prima dell’impatto.

Manca però la potenza simbolica che invece è propria della fotografia di Vucci, come vedremo in seguito.

In ogni caso, è interessante notare come, anche nel 2024, un medium datato come la fotografia, continua ad essere estremamente rilevante, a mantenersi, in certi contesti, insostituibile dal video (spesso presentato come la versione avanzata della fotografia, la verità 24 volte al secondo, citando Godard).

4. Perfezione formale

Inutile girarci attorno, la fotografia è fenomenale da un punto di vista estetico.

Nonostante la frenesia e la concitazione del momento, Vucci è stato in grado di scattare una fotografia formalmente impeccabile.

In parte frutto del caso, in parte dell’abilità del fotografo, il quale si è anche pronunciato in varie interviste riguardanti il suo scatto[6].

“The job is all about anticipation” dice Vucci, spiegando come, non appena sentiti gli spari, abbia cercato di immaginare come si sarebbe potuta evolvere la situazione.

“Slow down, think, compose”, questo il pensiero del fotografo: attenzione alla composizione.

Anche in una situazione di estremo pericolo, il pensiero va alla composizione, al creare un’immagine che sia significativa, che sia, sostanzialmente, bella, riportandoci a Civil War di Alex Garland, film totalmente incentrato su queste tematiche e che, sicuramente, sarà ora considerato come premonitore di quanto successo.

Può sembrare di cattivo gusto parlare di “bello” e di estetica in relazione a un fatto di cronaca come questo e alla sua rappresentazione, eppure, è inevitabile.

Pensiamo, ad esempio, a War is beautiful di David Shields, libro che raccoglie oltre una decade di prime pagine del New York Times rappresentanti diverse guerre, facendo notare come vi sia l’intento di estetizzare i conflitti.

L’estetizzazione della violenza, che è stata oggetto di innumerevoli critiche nell’ambito della settima arte, è una tendenza riscontrabile, inequivocabilmente, anche nell’industria dell’informazione.

La violenza intrattiene, si presta ad essere estetizzata. E l’industria dell’informazione, in quanto industria, non è esente dall’imperativo che guida ogni industria: il guadagno.

Sarebbe disonesto negarlo: la violenza vende, soprattutto la sua spettacolarizzazione. Ed è proprio in questa spettacolarizzazione che, spesso, immagini reali si avvicinano a quelle cinematografiche, con cui Hollywood ha contribuito a plasmare l’immaginario collettivo.

Il rapporto tra fotografia e rappresentazione della violenza è stato profondamente analizzato da Susan Sontag che, nel saggio Davanti al dolore degli altri, ha fatto notare come già Edmund Burke, filosofo britannico, precursore del romanticismo, evidenziasse questa attrazione verso la violenza[7].

In Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e Bello, del 1757, Burke scriveva: “tengo per certo che abbiamo un grado di diletto, e non picciolo, nelle altrui reali disgrazie e pene […] Non leggiamo forse storie che narrano fatti di questa natura con altrettanto piacere, quanto proviamo dalla lettura de’ poemi e romanzi, dove gli accidenti sono favolosi?”[8].

E ancora “Le idee di dolore, malattia, morte, riempiono la mente di forti emozioni di orrore: ma le idee di vita e di salute, sebbene ci mettano in grado di provare un certo piacere, non producono colla semplice gioia altrettanta impressione”[9].

Come viene sottolineato in Diplopia, non è un caso che le immagini dell’11 settembre che hanno conquistato la stragrande maggioranza delle prime pagine, siano state quelle dell’esplosione e della nube di fumo emanata dalle twin towers. Non la folla per strada, non le macerie, né, tantomeno, le disturbanti immagini dei corpi smembrati di chi si gettava dal grattacielo per sfuggire all’incendio, troppo estreme e dolorose per essere proposte al pubblico, salvo rare eccezioni.

Perché, certo, la violenza e la sofferenza attraggono ma, sempre tornando a Burke, solo se “il dolore e il terrore sono modificati in modo da non essere realmente nocivi”[10].

Le fotografie dei corpi smembrati si allontanano da quell’idea di spettacolarità, di sublime, sconfinando nel regno dello scomodo e del disturbante.

La nube di fumo e delle torri gemelle pronte al collasso, vinsero su tutto il resto. Immagini “più spettacolari che documentarie”[11]. Spettacolari in quanto, tra le altre cose, incredibilmente vicine agli sterminati scenari apocalittici figurati da Hollywood.

In quest’ottica, assumono più senso le provocatorie (e contestate) affermazioni del compositore tedesco Karlheinz Stockausen, che commentò l’attentato alle torri gemelle descrivendolo come “la più grande opera d’arte”[12].

Tornando alla fotografia di Vucci, come mai è così potente? Da cosa deriva la sua forza estetica?

I motivi sono molteplici. Partiamo dalla composizione.

Trump viene inquadrato dal basso. Un’inquadratura che ricorda quelle con cui Orson Welles ritraeva il suo citizen Kane in Quarto Potere.

Contre-plongée in Quarto potere di Orson Welles

La contre-plongée, questo il nome dell’inquadratura, mette lo spettatore in una condizione di inferiorità rispetto al soggetto ritratto che, osservato dal basso verso l’alto, viene enfatizzato nella sua imponenza, quasi mitizzato.

la disposizione degli agenti poi va, con l’asta della bandiera sulla sinistra e il pugno alzato di Trump, a formare un triangolo degno di una composizione pittorica che, non a caso, riporta alla mente il capolavoro di Delacroix La libertà che guida il popolo.

Altro elemento fondamentale è l’agente sulla destra che guarda in camera, quasi a interpellare direttamente lo spettatore, trascinandolo dentro all’immagine.

La posizione dell’agente all’interno dell’inquadratura, inoltre, rispetta perfettamente la regola dei terzi, così come la bandiera sullo sfondo.

La regola dei terzi

La regola dei terzi consiste nel non porre il soggetto della scena al centro, cosa che renderebbe l’immagine molto statica.

Dividendo il campo fotografico in tre sezioni, verticalmente e orizzontalmente, otterremo 9 quadranti uguali. È buona norma collocare il soggetto lungo le linee di forza, ovvero le linee che dividono i quadranti.

L’occhio dello spettatore va quindi a incrociare immediatamente lo sguardo dell’agente. Sguardo ricambiato, come dicevamo, che interpella in prima persona chi osserva la scena.

In seguito, si sposta l’attenzione verso il centro della fotografia, dove è posizionato Trump, il cui pugno costituisce il vertice superiore del triangolo già accennato.

5. Stratificazione semantica

Se la foto di Vucci può vantare un’ottima composizione, è ancora più significativa da un punto di vista semantico.

Sono molti i dettagli da evidenziare.

Partiamo dalla bandiera sullo sfondo, simbolo per eccellenza del patriottismo statunitense. La bandiera è però capovolta, a simboleggiare degli Stati Uniti sofferenti, in profonda crisi.

Torna alla mente il finale di Nella Valle di Elah, in cui, il protagonista, interpretato da Tommy Lee Jones, da fiero patriota ed ex militare, dopo aver scoperto le scioccanti verità che si celano dietro alla morte del figlio, anche lui militare, ormai disilluso e deluso dal suo paese, issa la bandiera statunitense capovolta, gesto che, nel gergo militare, indica una richiesta di aiuto.

Per una sorta di illusione ottica, sembra quasi che Trump stia sostenendo la bandiera. Ma chi sta chiedendo aiuto?

Si tratta senz’altro del popolo americano, deluso e tradito dall’establishment. In particolare tutto quel bacino elettorale che rappresenta l’America più profonda, non quella delle grandi metropoli.

Quella degli americani bianchi e poveri, che si sentono totalmente dimenticati dalle politiche progressiste democratiche e a cui, inequivocabilmente, guarda Trump, come dimostra anche la recente scelta del suo vice, ricaduta su James David Vance[13], politico e scrittore, a cui si deve il libro Elegia americana (da cui è stato tratto un film diretto da Ron Howard), che tratta proprio di quel volto degli Stati Uniti.

James David Vance

A proteggerli, suggerisce l’immagine, vi è Trump, a metà tra supereroe (del resto, ha appena schivato una pallottola potenzialmente letale) e una figura messianica, una sorta di martire, con tanto di rivoli di sangue dall’orecchio, pronto a immolarsi per il popolo americano al grido di “Fight, fight, fight”.

Vi sono poi altre due questioni molto significative.

In primo luogo il pugno chiuso di Trump, simbolo della lotta irrefrenabile. Come a dire: non basta un proiettile a fermare la lotta, la lotta continuerà.

Gli agenti sembrano cercare di placcarlo, di tirarlo verso il basso ma il pugno chiuso si staglia verso il cielo con una potenza degna di un’icona rivoluzionaria.

Ebbene, come è stato già fatto notare in varie analisi, il pugno chiuso rimanda a un universo di significati generalmente opposti alla collocazione politica di Trump[14] [15].

Dal pugno chiuso dei militanti comunisti (col braccio sinistro), passando per i Black Panther e il black power o il più recente Black Lives Matter, giusto per citarne alcuni.

Trump da decenni utilizza questo simbolo, significante vittoria, successo. Non si tratta certo della prima volta e già è stato analizzato il cortocircuito significativo della sua appropriazione di questo simbolo[16].

Appropriazione o riproposizione di un gesto simbolico, ormai svuotato del significato che ha assunto nel corso del tempo. Rappresenta la lotta e la vittoria, certo. Ma lotta contro chi?

Il contesto da cui viene preso il pugno chiuso perde di significato, rimane solo il gesto in sé.

La seconda questione ci rimanda, nuovamente, alla disposizione dei soggetti dell’immagine, che formano un triangolo. Ho accennato a Delacroix e al suo dipinto rappresentante la Rivoluzione di Luglio del 1830, in cui il popolo francese insorse contro al re Carlo X. Ancora una volta, dunque, la lotta. Al centro del dipinto, come Trump nella foto, una donna, simbolo della libertà, regge la bandiera francese.

È quasi superfluo ribadire il significato che assume il concetto di libertà per gli Stati Uniti, basti pensare che uno dei simboli più noti del paese, è una statua ad essa dedicata.

La foto dell’attentato però, rimanda ad altre due iconiche fotografie, impresse col fuoco nell’immaginario statunitense, e anch’esse, da un punto di vista compositivo e semantico, vicine al dipinto di Delacroix.

Da una parte Raising the Flag on Iwo Jima di Joe Rosenthal, dall’altra Raising the Flag at Ground Zero di Thomas E. Franklin.

Fotografie divenute simbolo di due momenti bui della storia americana.

La prima della guerra in Giappone che seguì l’attacco a Pearl Harbor del 1941. La seconda dell’11 settembre. Insomma due dei più profondi traumi vissuti dagli Stati Uniti.

Chéroux, nel già citato Diplopia, analizza approfonditamente il legame che intercorre tra le due fotografie e il modo in cui, nei giorni che seguirono l’11 settembre, i media insistettero sul paragone.

“La reiterazione degli schemi visivi appartenenti al passato doveva aiutare a cogliere in maniera adeguata la portata storica della situazione[…] è un modo per dire al lettore: «Attenzione! Stai per vivere degli avvenimenti che hanno il medesimo respiro storico»[17].

Chéroux la definisce intericonicità, traslando nel campo delle immagini il concetto di intertestualità descritto da Gérard Genette come “una relazione di copresenza fra due o più testi, vale a dire eideticamente, e come avviene nella maggior parte dei casi, come la presenza effettiva di un testo in un altro”[18].

Insomma nella fotografia dei pompieri che innalzano la bandiera statunitense, vive la fotografia dei soldati a Iwo Jima. Il rimando è talmente evidente che lo stesso autore della fotografia dei pompieri a Ground Zero, Thomas Franklin, ha dichiarato di essersi accorto immediatamente dell’incredibile somiglianza.

E così, nel caso dell’11 settembre, furono incessanti i rimandi a Pearl Harbor e al Giappone, e si presentò l’attentato alle Torri Gemelle analogamente all’attacco a Pearl Harbor: una dichiarazione di guerra che richiedeva una risposta militare.

Questa conclusione deriva, in gran parte, da un assunto di base. Le due fotografie simboleggiano la stessa cosa, hanno lo stesso significato: gli Stati Uniti che si rialzano dopo aver subito un attacco da un nemico. Gli Stati Uniti pronti a combattere e a vincere la guerra.

Non sono certo il primo a tracciare un paragone tra le due fotografie e quella dell’attentato a Trump[19] [20] [21]. Anzi, più che di un semplice paragone, mi sembra giusto parlare di una continuità, estetica ma, ovviamente, anche semantica.

Gli Stati Uniti messi in ginocchio dall’attacco di un nemico. Gli Stati Uniti pronti a rispondere e combattere (ancora una volta, il grido di Trump: “Fight, fight, fight”).

Thomas Matthew Crooks: l’attentatore

Chi è il nemico in questo caso? Il ventenne Thomas Matthew Crooks che ha sparato a Trump, classica mina vagante, pronta a detonare, come ce ne sono molte nella cronaca statunitense e che vede la sua più riuscita rappresentazione cinematografica nel Travis Bickle interpretato da De Niro in Taxi Driver? L’iconicità della foto sembra suggerire qualcosa di più, qualcosa di svincolato dal singolo evento: la lotta di Trump contro a un sistema che lo vuole vedere cadere.

In ogni caso, gli elementi delle tre foto sono quelli: un attacco nemico, la difficoltà degli Stati Uniti e la loro lotta.

A qualcuno potrebbe venire da pensare che la storia si ripete ciclicamente ma, come sottolineato da Chéroux, non è così: “evidentemente la storia non si ripete, la storia è ripetuta dai media”[22].

Così come per il pugno chiuso, anche queste fotografie vengono private del significato originario, private del contesto, appiattite e rese “uguali”.

Sembra insomma di assistere una sorta di reboot, per utilizzare un termine legato all’industria cinematografica. Riporta alla mente quanto scritto da Fredric Jameson a proposito del pastiche e del revival come tendenze dominanti della cultura postmoderna.

Un’imitazione, una riproduzione di stili e forme passate, priva di un atteggiamento critico. La mancanza di capacità di innovare.

La nostalgia postmoderna descritta da Jameson, ci porta a guardare al passato, a riproporlo attraverso un revival che manca di consapevolezza e comprensione storica, in una sorta di eterno presente, fatto da icone prive di un reale significato.

A tal proposito, sono interessanti anche le riflessioni di Mark Fisher in Realismo capitalista quando scrive che “il capitalismo sussume e consuma tutta la storia pregressa: è un effetto di quella «equivalenza» che riesce ad assegnare un valore monetario a qualsiasi oggetto culturale, si tratti di icone religiose, pornografia o Il capitale di Marx”[23].

E in effetti, queste immagini sono state mercificate, pensiamo a tutti i memorabilia basati sulle due fotografie di Rosenthal e Franklin: dai francobolli, alle t-shirt, ai soprammobili e via discorrendo.

Forse, l’iconicità di queste immagini è quantificabile anche in termini di commerciabilità delle stesse.

Dunque, dobbiamo aspettarci di vedere t-shirt con stampe della fotografia di Trump, simbolo della lotta, affiancate a quelle di Che Guevara? Tempo al tempo.

6. Tra verità e finzione

Un’ultima riflessione meritevole d’attenzione è quella sul rapporto, sempre più sottile, che intercorre tra verità e finzione.

Come accade sempre di fronte a eventi di questa portata, si è scatenata immediatamente la ricerca della verità, tra ricostruzioni balistiche della sparatoria, analisi sociali sulla rabbia che cova in seno agli Stati Uniti, fino ad arrivare alle teorie fantapolitiche e alle derive più complottiste.

I video vengono analizzati nei loro dettagli più microscopici, scomposti frame per frame. Le fotografie vengono studiate maniacalmente. Come avvenne, ai tempi dell’attentato a J.F. Kennedy con il celeberrimo filmato di Zapruder[24].

In un contesto di dilagante sfiducia verso le istituzioni, verso le cosiddette versioni ufficiali che queste propongono, ci si affida alle immagini e ai propri occhi, nel tentativo di svelare quella fantomatica verità che, probabilmente, è impossibile da raggiungere, come sembravano dirci Michelangelo Antonioni con Blow Up o De Palma e Coppola, rispettivamente con Blow Out e La conversazione.

Una ricerca che assume dei toni ancor più tragicomici se la si declina nell’era della post-verità, come sono stati descritti i nostri tempi dal docente americano Ralph Keys[25].

Insomma, l’effettiva verità diventa sempre meno importante, conta invece la reazione che una notizia suscita nel pubblico, a livello emotivo.

Mark Fisher, in Realismo capitalista, cita il canale che Stalin fece costruire tra il 1931 e il 1933 per collegare il Mar Baltico al Mar Bianco[26]. Il canale non ebbe mai un ruolo importante da un punto di vista economico, era troppo piccolo per consentire il passaggio delle navi da carico.

Permise invece il passaggio delle imbarcazioni che trasportarono i cronisti sovietici e stranieri, per documentare l’apertura del canale.

Poco importa l’effettiva inutilità del canale, molto più utili erano le rappresentazioni mediatiche, simboleggianti il progresso dell’Unione Sovietica.

O ancora, tornando alla foto di Joe Rosenthal, “contrariamente a ciò che viene sovente affermato dalla leggenda, questa immagine non fissa né la conquista dell’isola, né la vittoria sul nemico. L’assalto doveva ancora protrarsi per un mese, con l’uccisione dei 21000 soldati giapponesi trincerati sull’isola, causa dei 25000 feriti americani, di cui 7000 a morte”[27], tra cui sei dei marines presenti nella foto.

Allo stesso modo, del comizio di Trump cosa resterà? I contenuti e le idee da lui esposte o l’iconica fotografia scattata da Vucci e i significati a cui rimanda?

Colpisce, in questo senso, la lucidità con cui Trump ha reagito all’attentato. Dai video si può notare come, quando gli agenti hanno cercato di scortarlo giù dal palco, li abbia fermati dicendo “Wait, wait, wait” e solo in seguito, in un lampo di genialità, si sia messo in posa, molto probabilmente consapevole dell’occasione irripetibile che aveva di fronte.

Ancora una volta, dunque, che peso ha la verità? Importa realmente capire se la versione ufficiale sia quella corretta? O conta di più l’icona?

A rendere il quadro ancora più incerto, sono i rapporti che intercorrono tra queste immagini, prodotte dai fotogiornalisti, e quelle prodotte dall’industria hollywoodiana dell’intrattenimento.

In Davanti al dolore degli altri, Susan Sontag evidenziava come “una catastrofe che viene vissuta spesso sembrerà inquietantemente simile alla sua rappresentazione”[28].

L’attentato alla Torri Gemelle è stato descritto utilizzando espressioni quali: “surreale”, “come un film”.

Sontag fa anche notare come, in seguito a decenni di disaster movie hollywoodiani, l’espressione “sembrava come un film” sia andata a sostituire l’espressione “sembrava come un sogno”, con cui i sopravvissuti a una catastrofe erano soliti descrivere il trauma vissuto.

Del resto, la settima arte è stata spesso soprannominata “la macchina dei sogni” e si sprecano gli studi che hanno messo a confronto l’esperienza di chi sogna con quella di chi assiste a un film al cinema.

Spesso si è sentito dire, in relazione all’11 settembre, che Hollywood aveva già previsto tutto: l’esplosione dei grattacieli nel finale di Fight Club, le Twin Towers distrutte di Armageddon e via discorrendo, la lista è lunga.

Chéroux, in Diplopia, ribalta il punto di vista, sostenendo che non sia stata Hollywood a prevedere l’11 settembre ma piuttosto che “è la copertura mediatica degli attentati a essere stata profondamente determinata dalla visione hollywoodiana della memoria americana”[29].

Quasi che, ricondurre un evento traumatico a delle forme di rappresentazione già note e assimilate nell’immaginario collettivo, potesse aiutare ad esorcizzarlo meno dolorosamente.

Un discorso simile si può fare anche per l’attentato a Trump: una scena che abbiamo visto e rivisto, sia perché la storia americana è stata già segnata da attentati a presidenti, riusciti o meno (il già citato JFK, ma anche l’attentato a Ronald Reagan, per dirne uno), sia perché l’industria hollywoodiana ha più volte messo in scena l’assassinio di presidenti e di esponenti politici.

Si pensi a The Manchurian Candidate di John Frankenheimer, uscito un anno prima dell’assassinio di Kennedy, del quale Jonathan Demme ha realizzato un remake nel 2004.

O ancora, Perché un assassino di Alan J. Pakula, Nel centro del mirino di Wolfgang Petersen.

Anche in questo caso, la lista è lunga.

È complesso il rapporto che viene a crearsi tra la reale catastrofe e la sua rappresentazione. La copertura mediatica prende ispirazione dalla macchina dei sogni, il cinema prende ispirazione dai fatti reali, in una continua influenza reciproca.

A ciò si aggiunge che i contenuti sono sempre più mescolati tra di loro, la logica è quella dello scroll dei social, che alterna contenuti completamente diversi (foto di guerra, pubblicità, i selfie dei nostri contatti, immagini AI generated) in un flusso ininterrotto in cui i confini tra ciò che è identificabile come reale e ciò che non lo è, sono ormai del tutto confusi, arrivando alle conseguenze estreme come il caso del conflitto israeliano-palestinese e dell’ormai celebre immagine AI generated “All eyes on Rafah”.

L’immagine AI generated diventata virale

Un anonimo poster diventato virale, condiviso a ripetizione da milioni di utenti, occupando lo spazio che sarebbe potuto (e dovuto) essere dedicato alle reali immagini del massacro.

7. Decentralizzazione dei punti di vista come forma di resistenza

Il panorama che si viene a delineare, riflettendo su queste tematiche, è abbastanza sconfortante.

La sensazione è quella di avere a che fare con delle dinamiche e dei meccanismi profondamente sbagliati e pericolosi ma, allo stesso tempo, talmente radicati da essere sempre più difficili da contrastare.

Un punto di partenza, potrebbe essere quello suggerito da Chéroux in Diplopia: “concentrazione, uniformazione… sono questi, in effetti, i meccanismi generalmente associati all’industria alimentare o dell’abbigliamento, in particolar modo a multinazionali come Mcdonald’s, Coca-Cola, Nike, ecc. Questi stessi meccanismi colpiscono ormai l’immagine, diventata oggi un prodotto come un altro, il cui scambio è regolato dal pragmatismo commerciale”[30].

Ciò che resta dopo l’attentato

L’uniformazione, l’appiattimento dei punti di vista di cui ho scritto precedentemente, può essere contrastato cercando di riappropriarsi degli altri punti di vista, quelli esclusi dalla narrazione dei media.

In questo modo, si può cercare di ricostruire un evento nella sua complessità, senza ridurlo a quelle icone astoriche pronte per essere vendute nel mercato delle immagini.

Cercare di fuoriuscire dalle ripetitive narrative proposte dai media, assume i toni di una vera e propria resistenza.

Scritto da: Tomàs Daniel Avila Visintin


[1] Diplopia, di Clément Chéroux

[2] Diplopia, di Clément Chéroux, p. 43

[3] Diplopia, di Clément Chéroux, p. 43

[4] Diplopia, di Clément Chéroux, p. 44

[5] Davanti al dolore degli altri, di Susan Sontag, p. 20, https://monoskop.org/images/a/a6/Sontag_Susan_2003_Regarding_the_Pain_of_Others.pdf

[6] https://www.theguardian.com/us-news/article/2024/jul/15/trump-rally-shooting-photographer-evan-vucci-story

[7] Davanti al dolore degli altri, di Susan Sontag, p. 76, https://monoskop.org/images/a/a6/Sontag_Susan_2003_Regarding_the_Pain_of_Others.pdf

[8] Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e Bello, di Edmund Burke, p. 38, https://ia801302.us.archive.org/10/items/ricercafilosofic00burk/ricercafilosofic00burk.pdf

[9] Ricerca sulle idee del sublime e del bello, di Edmund Burke,p. 77, https://liberliber.it/autori/autori-b/edmond-burke/ricerca-sullorigine-delle-idee-del-sublime-e-del-bello/

[10] Ricerca sulle idee del sublime e del bello, di Edmund Burke,p. 207, https://liberliber.it/autori/autori-b/edmond-burke/ricerca-sullorigine-delle-idee-del-sublime-e-del-bello/

[11] Diplopia, di Clément Chéroux, p. 25

[12] https://www.theguardian.com/music/musicblog/2008/jun/23/isittimetoforgivestockhau

[13] https://it.wikipedia.org/wiki/James_David_Vance

[14] https://economictimes.indiatimes.com/news/international/world-news/trumps-raised-fist-what-the-gesture-means-which-is-widely-used-by-fascists-socialists-and-communists/articleshow/111725842.cms?from=mdr

[15] https://it.wikipedia.org/wiki/Pugno_chiuso

[16] https://www.buzzfeednews.com/article/nielaorr/what-does-the-raised-fist-mean-in-2017

[17] Diplopia, di Clément Chéroux, p. 84

[18] Palinsesti. La letteratura al secondo grado, di Gérard Genette, p. 4

[19] https://theconversation.com/elevation-colour-and-the-american-flag-heres-what-makes-evan-vuccis-trump-photograph-so-powerful-234662

[20] https://www.njspotlightnews.org/2024/07/trump-assassination-photo-how-some-photos-become-indelible-history/

[21] https://www.fastcompany.com/91156248/why-evan-vuccis-trump-photograph-feels-so-historic

[22] Diplopia, di Clément Chéroux, p. 98

[23] Realismo capitalista, di Mark Fisher, p. 30

[24] https://it.wikipedia.org/wiki/Abraham_Zapruder

[25] https://archive.org/details/posttrutheradish0000keye

[26] Realismo capitalista, di Mark Fisher, p. 92

[27] Diplopia, di Clément Chéroux, p. 66

[28] Davanti al dolore degli altri, di Susan Sontag, p. 19, https://monoskop.org/images/a/a6/Sontag_Susan_2003_Regarding_the_Pain_of_Others.pdf

[29] Diplopia, di Clément Chéroux, p. 107

[30] Diplopia, di Clément Chéroux, p. 48