1- Introduzione
Mank è senza dubbio uno dei film più importanti dell’anno, nonché una delle opere che meglio rappresentano il cinema di oggi, pur essendo ambientato tra gli anni ’30 e ’40.
Inoltre si tratta del ritorno di Fincher al lungometraggio, a distanza di sei anni da Gone Girl e in seguito a varie esperienze con serie tv, come Mindhunter e Love, Death & Robots.
Parlare di Mank non è facile perché è un film molto denso: denso di dialoghi, di riferimenti al mondo dello spettacolo della Hollywood classica e di riferimenti al periodo storico messo in scena.
Per questo motivo è difficile parlarne in modo soddisfacente ed è anche difficile per lo spettatore meno ferrato su quel periodo cinematografico riuscire a seguire il film.
In breve la storia è quella dello sceneggiatore Joseph L. Mankiewicz e in particolare del periodo in cui scrisse la sceneggiatura di Quarto potere, uno dei più grandi film di tutti i tempi. Ci si rende conto dopo poco però che Mank in realtà, seppur mantenga sempre il protagonista come centro gravitazionale di tutto ciò che accade, racconta un periodo del cinema americano classico, tra gli anni ’30 e ’40. Un periodo di grandi cambiamenti e anche di crisi.
Per questo motivo, guardando il nuovo film di Fincher viene subito in mente uno dei capolavori del cinema contemporaneo: C’era una volta a hollywood di Quentin Tarantino. Le due opere sono molto vicine, pur trattando periodi storici diversi e pur essendo stilisticamente molto lontane.
Entrambe tuttavia raccontano due epoche del cinema americano. Fincher gli anni del cinema classico, tra i ’30 e ’40, Tarantino invece la fine di quel periodo storico e l’avvento del cambiamento, cinematografico e sociale, avvenuto sul finire degli anni ’60.
La cosa che accomuna di più i due film è sicuramente l’amore dei due registi per il cinema, accompagnato da una nostalgia per dei periodi ormai appartenenti solo al passato. Nonostante ciò comunque non è mai un piangersi addosso pensando ai tempi passati, in particolare nel caso di Fincher.
2- La genesi della sceneggiatura e l’intervento di Netflix
Tarantino è senza dubbio un nostalgico della celluloide e del cinema che lo ha cresciuto, inteso anche come esperienza cinematografica. Basta pensare alla fissazione per la pellicola e all’importanza che dà al vedere i film ancora in sala, l’esempio emblematico è The hateful 8 e il suo tentativo di rendere di nuovo centrale l’esperienza cinematografica come spettacolo, con tanto di ouverture e interludio musicale.
Fincher invece è sempre stato proiettato verso il futuro, verso il cinema digitale. Fin dai tempi di Fight Club ha fatto un impiego massiccio di effetti digitali, cosa che non sorprende se si pensa che il suo ingresso nel mondo del cinema avvenne proprio nel campo degli effetti visivi, alla Industrial Light & Magic di George Lucas e partecipò infatti alla realizzazione degli effetti visivi di Star Wars: episodio 6 e Indiana Jones e il tempio maledetto.
Fincher è sempre stato molto pragmatico e ha colto le grandi potenzialità del digitale non solo per gli effetti più evidenti, da film di fantascienza, ma anche per gli effetti invisibili. Che siano i virtuosistici movimenti di macchina che attraversano le pareti in Panic Room, la San Francisco anni ’70 ricostruita al computer di Zodiac o i gemelli Winklevoss di The Social Network.
Risulta quindi assolutamente in linea con il suo percorso la scelta di Netflix, con cui per altro ha firmato un contratto in esclusiva. Il rapporto di Fincher con Netflix risale a House of cards, uno dei primi grandi successi del colosso dello streaming, passando poi per la splendida Mindhunter, purtroppo cancellata in seguito alla seconda stagione, e Love, Death & Robots, di cui vedremo il seguito.
Fincher vede in Netflix una grande opportunità, così come ce l’hanno vista Scorsese o Kaufman. È chiaro infatti che film come Mank, The Irishman e Sto pensando di finirla qui non avrebbero potuto vedere la luce senza l’intervento di Netflix. Da una parte c’è la libertà artistica pressoché totale che viene lasciata a questi autori, a differenza di tutti i vincoli imposti dalle major tradizionali, dall’altra però c’è il rischio di perdere la magia dell’esperienza cinematografica che può dare soltanto il vedere i film in sala, come continua a ripeterci Tarantino.
Fincher sembra essere arrivato al limite di sopportazione per quanto riguarda i vincoli imposti dagli studios, lo si capisce dalle varie interviste rilasciate in questo periodo, lo si capisce dalla scelta di firmare il contratto in esclusiva con Netflix, e lo si capisce soprattutto da Mank.
Ciò che il regista racconta nel film sembra infatti estremamente attuale. Nella Hollywood classica, in cui i film erano fortemente codificati in generi (con la distinzione tra generi di serie A e generi di serie B, come fa capire la divertente macchietta di Josef von Sternberg), le major dominavano il mondo del cinema e dietro alla magia della macchina dei sogni c’erano in realtà ragionamenti puramente economici e politici che limitavano la libertà artistica e tarpavano le ali agli autori come Mankiewicz.
Le cose non sembrano essere cambiate di molto, il cinema è sempre un’industria, inevitabilmente, e gli artisti come Mankiewicz, in cui Fincher sembra rispecchiarsi, non hanno vita facile, a meno che non si adeguino alle logiche e ai limiti del cinema più vendibile.
Mank è la perfetta dimostrazione di tutto ciò. Come già detto si tratta di un film di difficile fruizione a anche di scarsa appetibilità per un distributore. Non a caso Fincher avrebbe dovuto portare sullo schermo la sceneggiatura di Mank, scritta da suo padre, morto nel 2003, in seguito a The Game, film del 1997, ma la volontà del regista di girarlo in bianco e nero fece sì che il progetto non interessasse alle case produttrici fino all’intervento di Netflix.
Per la precisione il padre del regista, da sempre grande estimatore di Quarto potere, scrisse la sceneggiatura di Mank prima che Fincher avesse girato il suo primo film, Alien 3, quando, dopo anni come giornalista, decise di scrivere la sua prima, e unica, sceneggiatura.
L’ispirazione principale fu il saggio Raising Kane della critica cinematografica Pauline Kael, del 1971.
In questo celebre e controverso saggio, Kael esponeva la teoria secondo cui lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz fosse stato l’unico scrittore della sceneggiatura di Quarto potere, nonostante fosse stato accreditato solo come co-sceneggiatore insieme a Orson Welles.
La paternità della sceneggiatura di Quarto potere è sempre stato un tema controverso.
Il saggio, che suscitò molte critiche tra cui quella di Peter Bogdanovich, portava l’attenzione sul processo di scrittura, che spesso passa in secondo piano, nascosto dalla figura del regista.
Mank parte da questo presupposto e infatti è incentrato sulla figura dello sceneggiatore Mankiewicz, il personaggio di Welles si vede molto poco e in un certo senso la sua figura mitica viene ridimensionata.
Ciò tuttavia non è una mancanza di rispetto di Fincher nei confronti di Welles, del quale riconosce ovviamente la grandezza e il genio. In alcune interviste recenti, il regista si è espresso anche su questo punto, dicendo che non intende di certo contestare il genio di Welles ma appunto ridimensionare la mitologia che si è creata attorno al suo personaggio, dando i giusti meriti anche agli altri che hanno reso Quarto potere uno dei film più grandi della storia.
Questo non si riduce a una battaglia tra regista e sceneggiatore, anche perché Fincher sta nella stessa categoria di Welles, quella dei registi, e per di più è uno di quei registi che non scrivono le sceneggiature dei propri film ma si limitano alla regia.
3- Politica e studios
Nella scrittura della sceneggiatura, a quanto dice il regista, fu fondamentale per suo padre la scoperta della campagna politica EPIC di Upton Sinclair, candidato alle elezioni governative della California del 1934.
Sinclair, autore del libro The Jungle, era uno scrittore socialista, prima di dedicarsi alla carriera politica.
In particolare, è centrale in Mank la campagna politica del 1934, che prese il nome di End Poverty in California movement.
L’America si trovava nel periodo della grande depressione, in seguito al crollo del ’29, le cui conseguenze avevano inevitabilmente colpito anche l’industria cinematografica, che si trovava in un momento di crisi.
Upton Sinclair era portavoce di una politica di ispirazione socialista, incentrata su un programma di lavori pubblici e una riforma delle tasse. Il piano avrebbe visto un forte intervento statale, a svantaggio dei privati, e una tassazione progressiva che andava a colpire soprattutto i più abbienti.
Le proposte di Sinclair ovviamente risultavano particolarmente minacciose negli Stati Uniti e il candidato repubblicano contendente alle elezioni del ’34, Frank Merriam, venne spinto da tutti coloro che sarebbero stati svantaggiati dalle politiche filo socialiste di Sinclair. Tra questi ci furono anche le major hollywoodiane.
Mank indaga approfonditamente la relazione tra il candidato repubblicano, le case produttrici Hollywoodiane e alcuni personaggi del mondo dello spettacolo.
Infatti le major avevano molto da perdere, visto che Sinclair aveva proposto che lo stato prelevasse i lotti inutilizzati appartenenti alle major per assegnali ai lavoratori dello spettacolo disoccupati.
Nel film, Fincher mostra questo periodo di crisi, facendo vedere come sia stato colpito il mondo dello spettacolo e rappresentando i direttori delle major come degli spietati imprenditori, disinteressati all’arte.
In una scena, ad esempio, assistiamo a Louis B. Mayer, capo della Metro Goldwyn Mayer, dimezzare lo stipendio a tutti i dipendenti e Fincher insiste sulla falsità di Mayer, sul suo continuo fingere interesse verso le condizioni dei suoi dipendenti, salvo poi dimostrarsi cinico e interessato solo al profitto.
Mayer, noto per il dispotismo e il conservatorismo, era inoltre legato a uno dei più importanti personaggi del periodo: William Randolph Hearst, un businessman e magnate dell’editoria.
Proprio dal 1934, la serie di newsreels Hearst Metrotone News, prodotta dalla Hearst Corporation, venne realizzata in collaborazione con la Metro-Goldwyn-Mayer[1].
Nel film viene trattato approfonditamente il legame tra questi personaggi e si dà particolare enfasi ai cinegiornali realizzati dalla MGM per screditare Sinclair. Si tratta di vere e proprie fake news prima che l’espressione venisse coniata[2].
Ancora una volta quindi il film ci parla degli anni ’30 ma sembra mostrarci come, anche in ambito politico, certe cose non siano cambiate col tempo, anzi, al limite pratiche scorrette di questo genere hanno avuto un impiego sempre maggiore.
I cinegiornali della MGM mettevano in scena degli attori che, simulando di essere normali cittadini, divulgavano falsità riguardo al movimento di Sinclair, facendo leva sul fatto che tentasse di attentare ai principi della proprietà privata.
Pochi personaggi della Hollywood del tempo si opposero, tra cui attori come Charlie Chaplin, Dorothy Parker[3].
4- La nascita di Quarto potere
Questo background politico e sociale serve a Fincher per dimostrare che la paternità della sceneggiatura di Quarto potere appartiene a Mankiewicz che, nonostante la sua antipatia verso i personaggi di cui abbiamo parlato, frequentava il loro ambiente e non solo, erano proprio loro a sostenerlo economicamente.
Un altro personaggio fondamentale in Mank è quello di Marion Davis, interpretata da Amanda Seyfried, che fu amante di William Hearst nonostante la differenza d’età.
Hearst spese grandi somme di denaro per cercare di spingere la sua amata nel mondo del cinema, cercando di inserirla negli ambienti delle principali case produttrici, dalla Paramount alla Metro-Goldwyn-Mayer.
Tuttavia, Marion si avvicinò anche agli artisti che ruotavano attorno alla United Artist, nonostante i tentativi di Hears di dissuaderla. Si parla quindi ad esempio di Charlie Chaplin, presente anche in Mank e che, come visto prima, politicamente era schierato dalla parte opposta rispetto a Hearst e ai direttori delle major.
Fincher si concentra molto sulla questione dei cinegiornali realizzati per screditare Sinclair e sul coinvolgimento, tra gli altri, dello stesso Mankiewicz. Nel film addirittura, un amico dello sceneggiatore, colpito duramente dalla crisi, accetta di girare i cinegiornali e, in seguito alle elezioni, una volta compreso il tremendo potere e gli effetti devastanti di ciò che ha realizzato, si suicida.
Tutto ciò segna profondamente Mankiewicz che, da una parte arriva a odiare il circolo di Hearst e dei personaggi hollywoodiani di spicco, dall’altra odia pure sé stesso per essere comunque rimasto legato a quel mondo, che lo sostiene economicamente e lo accetta come una specie di buffone di corte, una voce fuori dal coro, all’apparenza un personaggio scomodo, ma in realtà più che altro un clown che fa divertire tutti quanti.
Da qui, cogliendo l’opportunità di una produzione della RKO totalmente libera e al di fuori delle imposizioni degli studios, Mankiewicz realizza un attacco a quel mondo, prendendo ispirazione, per il protagonitsa di Quarto potere, Charles Foster Kane, proprio da William Hearst.
Kane e Hearst hanno infatti molte cose in comune, tra le quali il castello di Candalù di Quarto potere, ovvero la reggia in cui il protagonista si rinchiude, che si rifà direttamente al castello Hearst, simbolo del suo potere. Vi è poi la seconda moglie di Kane che allude chiaramente alla relazione tra Hearst e Marion Davis. E infine, cosa più importante, lo strapotere mediatico dei due personaggi, che riporta un’altra volta alla vicenda delle elezioni governative californiane del 1934.
Insomma Mankiewicz ha messo dentro alla sceneggiatura il suo mondo, in modo fin troppo diretto, tanto da attirarsi le antipatie dei diretti interessati. Nonostante ciò però, e nonostante il suo continuo tentativo di autodistruggersi, rafforzato dai sensi di colpa, cerca di difendere fino alla fine il suo lavoro e di far sì che resti il più possibile intatto, come lo ha scritto lui.
Mank è un personaggio in trappola. È intrappolato in un mondo che detesta ma dal quale dipende e soprattutto è intrappolato nel personaggio che si è creato, vittima di sé stesso e della sua tendenza all’autodistruzione.
La sceneggiatura di Quarto potere è la sua più grande opera, dopo anni passati soprattutto a correggere script altrui, cercando di salvare il salvabile.
Non a caso in seguito lavorò sempre meno, fino alla sua morte prematura, avvenuta nel 1953. Ad a vere più successo fu il fratello minore, Joseph L. Mankiewicz, regista, tra le altre cose, di Eva contro Eva. Da tutto questo deriva la testardaggine con cui Mank difenderà il suo lavoro fino alla fine, ultimo tentativo di lasciare una traccia importante.
5- Hollywood classica
Lo abbiamo già detto più volte, Quarto potere è uno dei film più belli di sempre, nonché uno dei più importanti. Venne alla luce nel pieno della Hollywood Classica e ne rappresenta allo stesso tempo uno degli apici e uno degli esempi maggiori di deviazione dai codici del cinema hollywoodiano classico e addirittura di anticipazione di tutto ciò che è venuto in seguito, a partire dalla stagione cinematografica della Nuova Hollywood, i cui registi principali non hanno mai nascosto quanto Welles, e Quarto potere in particolare, sia stato una grande fonte d’ispirazione.
Tarantino in C’era una volta a… Hollywood racconta il periodo di transizione avvenuto tra la fine del cinema classico hollywoodiano e l’avvento della nuova Hollywood, immergendoci all’interno di quel mondo, senza spiegare troppo allo spettatore ma facendoglielo vivere.
Fincher cerca di fare la stessa cosa ma con gli anni ’30, motivo per cui, senza conoscere abbastanza bene quel periodo cinematografico, ci si può trovare spaesati, visto che il regista non si dilunga in spiegazioni e presentazioni dei personaggi, cosa che avrebbe resto il tutto troppo didascalico e documentaristico. Invece, come Tarantino, trasporta lo spettatore in quel mondo, facendoglielo vivere.
Prima abbiamo parlato del contesto politico in cui si svolgono gli eventi ma Fincher dà chiaramente molto più spazio al mondo del cinema, alla Hollywood anni ’30.
Gli anni ’30 furono un periodo di grandi cambiamenti per il cinema Americano.
Per prima cosa, risale al 1927, con Il cantante di jazz, il primo film sonoro. L’introduzione del sonoro fu uno dei cambiamenti più drastici avvenuti nella storia della settima arte. Un cambiamento che sconvolse molti equilibri e portò anche a un cambiamento delle figure più in vista nel mondo dello spettacolo.
Una cosa su tutte, il fatto che gli attori dovettero imparare a recitare non solo attraverso la gestualità e l’espressività facciale ma anche attraverso la parola. Non tutti gli attori in voga nell’era del cinema muto riuscirono a reggere questo cambiamento e in Mank si accenna in diverse occasioni al passaggio da muto a sonoro. È proprio il personaggio di William Hearst a dire che il futuro del cinema sarebbe stato il sonoro.
Si trattava inoltre di un periodo difficile per le major, dal punto di vista economico, a causa della crisi del ’29. La Paramount per esempio si trovò costretta a dichiarare il fallimento nel 1933.
La MGM tuttavia, centrale in Mank, tra le major fu quella che riuscì a reggere meglio il periodo di crisi e a incassare di più.
Abbiamo già accennato al fatto che i direttori delle major erano tendenzialmente conservatori. I registi non avevano vita facile per quanto riguarda la libertà d’espressione, nel 1934 vennero stabilite delle nuove regole da parte della MPPDA, molto più rigide di quelle precedenti, cosa che rese ancora più difficile per i registi trattare certi temi.
Per questi motivi destò molto stupore il contratto stretto dalla RKO con Orson Welles, ai tempi reduce del successo radiofonico de La guerra dei mondi, e intendo a passare al mondo del cinema.
Si trattava di un contratto senza precedenti che prevedeva totale libertà artistica, dalla fase di scrittura alla fase di ripresa, fino ad arrivare al montaggio finale del film.
Una tipologia di contratto che è sempre stata molto rara nel mondo del cinema americano e che solo tra gli anni ’60 e ’70, nel periodo della New Hollywood, divento più comune.
Fincher racconta questo periodo fondamentale per in cinema Americano con nostalgia ma in modo realistico e senza mitizzarlo.
Questo aspetto, che è uno dei punti di forza di Mank, sarà probabilmente motivo di molte critiche, specie per quanto riguarda il trattamento di Welles, la cui figura mitologica, come già detto, viene riportata a una dimensione umana.
Viene presentato come un giovane talentuoso, una speranza per la RKO, ma allo stesso tempo come un megalomane ed egocentrico.
Fincher ha spiegato cosa ne pensa in varie interviste e facilmente il suo pensiero verrà frainteso. Non si tratta di demolire un autore che rimane uno dei geni assoluti della settima arte, quanto di comprendere come il cinema sia un lavoro corale, in cui un capolavoro non può nascere dal lavoro di una sola persona, specie considerando che si trattava della prima esperienza cinematografica di Welles.
6- Lo stile di Mank
Un discorso a parte va fatto su come Mank è stato realizzato. Lo stile adottato da Fincher è il principale motivo per cui il progetto è stato rimandato per anni fino all’intervento di Netflix.
L’idea di base è quella di trasportare lo spettatore negli anni in cui è ambientato il film ed è interessante fare un parallelo con uno dei film storici più importanti degli ultimi anni, Nemico pubblico di Michael Mann del 2009.
Sia Fincher che Mann sono tra i registi che, nella lotta tra digitale e pellicola, hanno preso la parte delle nuove tecnologie digitali senza molti rimpianti.
Mann è stato uno dei pionieri del digitale e già in Alì, nel 2001, alcune riprese sono state realizzate in digitale.
Fincher ci è arrivato nel 2007 con Zodiac, dopo aver impiegato per anni il digitale più che altro per gli effetti visivi.
Considerando che tra il 2010 e il 2015 è avvenuto per la maggior parte il passaggio da riprese in pellicola a riprese in digitale, si capisce come entrambi si siano interessanti fin da subito al d-cinema. Inoltre, l’intento dei registi con i due film in questione è molto simile.
Si tratta di trasportare lo spettatore all’interno di un’epoca passata, quindi di realizzare un film storico che non si limiti a raccontare i fatti ma che anche stilisticamente cerchi di immergere lo spettatore in una data epoca.
Il punto di partenza è simile ma la soluzione scelta è praticamente agli antipodi.
Mann ha deciso di sfruttare le caratteristiche estetiche distintive del digitale, criticato soprattutto per la distanza dall’estetica della pellicola. Caratteristiche come la grande profondità di campo, il rumore digitale, l’iperrealismo del video. Mann ha fatto sue la caratteristiche intrinseche del digitale dando vita a uno stile senza eguali nel panorama attuale.
In sostanza ha tentato di rappresentare un’epoca passata col realismo del video digitale, come se fossimo lì con una videocamera attuale a riprendere e filmare la storia. Tutto quindi è volto al realismo più assoluto.
L’approccio di Fincher invece punta a filtrare un’epoca storica attraverso le lenti cinematografiche dell’epoca. Il cinema, specchio della realtà, viene scelto come punto di vista su un periodo storico.
Anche in questo caso vi è una ricerca minuziosa del realismo ma di un realismo cinematografico, una resa il più fedele possibile di un film degli anni ’30-’40.
Anche riguardo a questo il regista si è espresso in più interviste che riconfermano il suo ben noto perfezionismo.
Nel processo di realizzazione di Mank il digitale ha ricoperto un ruolo fondamentale. Si può dire che, paradossalmente, per ottenere questo stile d’epoca, si sono sfruttate tecnologie all’avanguardia.
Innanzitutto, a differenza di quanto avrebbe fatto Tarantino, Fincher ha optato per il digitale già in fase di ripresa, in modo però molto atipico. Ha utilizzato una Red Ranger Helium Monochrome[4], ovvero una delle poche macchine da presa digitali con un sensore monocromatico. In sostanza già le riprese raw sono monocromatiche, non vengono trasformate in bianco e nero in post-produzione.
Questo porta a ragionare in bianco e nero, più o meno come se si usasse la pellicola monocromatica.
Per quanto riguarda la resa visiva, l’operazione è stata quella di partire da riprese ad altissima risoluzione (8k) e degradarle progressivamente facendo perdere risoluzione[5].
In seguito sono stati inserite tutte le caratteristiche della pellicola antica, dai graffi alle bruciature di sigaretta, fino a cerchi che indicavano il cambio di bobina.
Un lavoro simile è stato fatto anche sul sonoro. La colonna sonora di Terent Renzon e Atticus Ross, fedeli collaboratori del regista, cerca di riprendere le sonorità dell’epoca ed è stata inoltre registrata con vecchi microfoni in modo che anche il tipo di suono fosse simile a quelli dei film anni ’30.
Anche gli altri aspetti del film sono stati curati allo stesso modo, dalla recitazione degli attori che si rifà allo stile di recitazione di quegli anni, alla regia di Fincher che cita in continuazione lo stile di Welles, a riprova del fatto che lui in primis ne riconosce la grandezza.
Si sprecano quindi i riferimenti a tutte le innovazioni visive introdotte da Welles nel cinema hollywoodiano. C’è da dire infatti che Welles, più che inventarle, ha messo insieme varie tecniche riprese dalle avanguardie europee, dall’espressionismo al surrealismo.
Fincher, nonostante per la maggior parte del film adotti uno stile composto, in certi momenti si lascia andare alle invenzioni visive wellesiane: dalle riprese fuori bolla a quelle dal basso, passando per dissolvenze, sovraimpressioni, forti chiaroscuri e profondità di campo estrema. Il merito è anche della splendida fotografia di Erik Messerschmidt, con cui Fincher ha avuto modo di collaborare più volte, ad esempio in Mindhunter.
7- Conclusioni
In conclusione Mank è un film denso e stratificato, forse l’opera più difficile della filmografia di Fincher, sicuramente la meno commerciale.
Questo ci riporta ancora una volta a Netflix e alle produzioni autoriali a cui si sta dedicando nell’ultimo periodo. Basti pensare, stando in questo scarno 2020, a Mank e a Sto pensando di finirla qui, due dei film migliori dell’anno che con grande probabilità non avremmo visto senza l’intervento del colosso dello streaming, per non parlare di The irishman di Scorsese.
Sempre più registi stanno andando da Netflix, per la libertà che lascia e la possibilità che dà di realizzare opere di nicchia, pensate già in partenza come prodotti che non saranno destinati ad avere un grande successo in termini di incassi.
Si tratta insomma di un’alternativa agli studios hollywoodiani.
E visto in quest’ottica, Mank risulta ancora più geniale, un vero e proprio manifesto di questo periodo di transizione in cui il cinema sta vivendo la sua ennesima mutazione.
Siamo nel bel mezzo di un cambiamento, probabilmente uno dei più importanti della storia del cinema, e Fincher se ne rende conto, raccontando una storia ambientata 80 anni fa ma allo stesso tempo contemporanea.
Mank è un gran film, da vedere e rivedere, cercando di cogliere ogni volta nuovi particolari. Uno dei pochi spiragli di luce in questo anno drammatico.
Scritto da: Tomàs Daniel Avila Visintin
Note:
[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Hearst_Metrotone_News
[2] https://pdxscholar.library.pdx.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=3944&context=open_access_etds
[3] https://pdxscholar.library.pdx.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=3944&context=open_access_etds
[4] https://www.imdb.com/title/tt10618286/technical
[5] https://www.vulture.com/2020/10/david-fincher-mank.html