Regia: Alice Rohrwacher
Sceneggiatura: Alice Rohrwacher
Fotografia: Hélène Louvart
Montaggio: Nelly Quettier
Produzione: Tempesta, Rai Cinema,
Distribuzione: 01 Distribution
Anno: 2018
Durata: 126′.
Paese: Italia
Interpreti: Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Luca Chikovani, Agnese Graziani, Nicoletta Braschi
Trama
Lazzaro è un giovane contadino di 20 anni, estremamente buono e semplice, che ha un forte legame di amicizia con Tancredi, figlio della marchesa Alfonsina De Luna, donna dal carattere forte e duro, nota anche come “la regina delle sigarette”. La loro amicizia si rafforza ulteriormente quando Tancredi chiede a Lazzaro di aiutarlo ad organizzare il suo stesso rapimento.
Lazzaro l’infelice
Lazzaro è infelice perché schiavo e consapevole, allora canta il blues come i neri nelle piantagioni. Lazzaro è infelice perché orfano e alla ricerca delle sue origini. Lazzaro è infelice perché parte di una catena di montaggio bestiale in cui vince chi sfrutta più e meglio, infelice perché anello di chiusura di questa catena, che non ha sottoposti a cui elargire ordini. Lazzaro è infelice perché desidera quello che non ha, si addormenta ogni notte pensando alla misteriosa città.
Niente di tutto questo. Lazzaro è felice perché inconsapevole e profondamente buono, neanche quando ascolterà il racconto del ‘Grande inganno’ svelato sembrerà considerarlo fatto degno di nota. Lazzaro è felice perché ha un posto tutto suo, vicino alle capre, con tanto caffè. Lì, per poco, si concede del tempo e almeno a sé stesso smette di essere invisibile. Lazzaro è felice perché ulula alla luna e la luna risponde. Lazzaro è felice perché ha trovato un amico, un quasi fratello.
Per raccontare la storia di Lazzaro bisogna raccontarne due, una che ci dice cosa non è, una che forse si avvicina a quello che potrebbe essere. Lazzaro non è il nuovo selvaggio del nuovo mondo Huxleyano, non viene allontanato da una natura primigenia per essere un’attrazione nel mondo automatico. Quello della Rohrwacher non è un mondo distopico, è solo un mondo realistico. A Nicoletta Braschi, La Marchesa, sono affidate le parole di un capitalista incallito:”Gli esseri umani sono come bestie, animali. Liberarli vuol dire renderli consci della propria condizione di schiavitù”.
Lazzaro vive in una realtà parallela, che non sa essere parallela, e per una miracolosa febbre non si accorgerà di niente neanche quando il suo mondo verrà fatto a pezzi da un autobus e qualche squadra di soccorso. Come se il suo sguardo sul mondo fosse immune alla bruttezza, ai sotterfugi e soprattutto al cambiamento. Lazzaro non cercherà mai una fuga dal nuovo mondo, ma con propositività eccezionalmente contadina cercherà di dare all’altro sempre più di quello che conserva per sé stesso.
Siamo quindi alla seconda storia, Lazzaro e Balthazar, l’asino protagonista di un bellissimo film di Robert Bresson del 1966 (Au hasard Balthazar). L’asino, nell’iconografia classica e religiosa, è la bestia per antonomasia. Balthazar passa di padrone in padrone, ma le sue sofferenze sono la costante in una vita in cui c’è spazio per veramente poca speranza. Uno Schopenhauer in muscoli e zoccoli.
Nel film di Bresson la storia di Balthazar è affiancata a quella della giovane Marie, come a voler rafforzare l’obbligato parallelismo tra schiavitù volontaria e non. Qui, in Lazzaro felice, Alice Rohrwacher non sembra aver bisogno di alcun alter-ego. Lazzaro è uomo, ma è anche bestia, lo stesso asino Balthazar. La distinzione tra il libero arbitrio umano e la costrizione animale non sembra più necessaria in un’epoca in cui tutti siamo governati da leggi ben superiori a quello che un asino può mai comprendere.
Il cineasta francese, per il suo film, diceva di aver trovato ispirazione in alcune parole pronunciate dal principe Myškin ne l’Idiota di Dostoevskij: “al mio arrivo in Svizzera mi svegliò il ragliare di un asino sul mercato cittadino. Quell’asino mi colpì enormemente e, chi sa perché, mi piacque in modo straordinario e, nello stesso tempo, a un tratto tutto parve schiarirmisi nel cervello”. Questo stesso testo sembra contenere la chiave di lettura del racconto fiabesco messo in scena in Lazzaro Felice, chi è altrimenti Lazzaro? Un miracolato (che sì, si alza e cammina)? Un demone? O forse un più semplice idiota?
“Prendo pezzi della realtà e cerco di metterli insieme in un certo ordine. Non “realizzo” né metto “in scena” un bel niente. Il cinema è una scrittura, non uno spettacolo.” Diceva Bresson, e forse la Rohrwacher sarebbe d’accordo, reduce del premio alla miglior sceneggiatura all’ultimo festival di Cannes.
La regista compie una scelta azzeccatissima, gira il film in pellicola 16mm, facendoci storcere il naso di fronte a immagini non completamente a fuoco al grande schermo, ormai abituati ad una nitidezza assoluta. La natura, elemento che avvolge i personaggi senza quasi mai predominare la scena, viene rappresentata nella sua interezza ma senza aggettivi. Si presenta solo per quello che è, esattamente come Lazzaro. D’altro canto, forse, è l’unica che gli si può accostare, proprio perché suo elemento naturale. La natura non smette di esser tale nemmeno nel più inospitale dei luoghi, e così anche Lazzaro non tradisce mai sè stesso.
Eppure, nonostante la grande attenzione rivolta al protagonista e a questo idillio bucolico, il film non manca di infierire sui pilastri della società moderna: banche, religione, gerarchie statali, non manca proprio nessuno, nonostante i temi siano niente più che accennati. Così come sono accennati anche tutti gli altri personaggi, che quasi scompaiono dietro lo sguardo mansueto di Lazzaro. E’ un film lontano dalla perfezione, ma che si ricava la sua nicchia tra una pecora e l’altra.
Alla fine, Lazzaro sarà si infelice, perché – finalmente, diremmo egoisticamente – si renderà conto di aver perso qualcosa. Qualcosa che per la prima volta nella vita poteva considerare sua, un amico, un quasi fratello. E alla fine, forse questa algida Rohrwacher mi sta anche simpatica, e l’epiteto asino ormai sarà tutt’altro che un insulto.
Au hasard Lazzaro!
Scritto da: Ilaria Micella