Analisi Cam

In Analisi film, Cinema, Ludovica G., Tomàs Avila by scheggedivetroLeave a Comment

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Regia: Daniel Goldhaber.
Soggetto: Daniel Goldhaber, Isa Mazzei, Isabelle Link-Levy.
Sceneggiatura: Isa Mazzei.
Colonna sonora: Gavin Brivik.
Direttore della fotografia: Katelin Arizmendi.
Montaggio: Daniel Garber.
Produttore: Divide/Conquer, Blumhouse Productions, Gundpowder & Sky.
Anno: 2018.
Durata: 94′.
Paese: USA.
Interpreti e personaggi: Madeline Brewer (Alce/ Lola), Patch Darragh (Tinker), Melora Walters (Lynne), Devin Druid (Jordan), Imani Hakim (Baby), Michael Dempsey (Barney).

Indice:
Analisi Cam di Ludovica G.
L’avatar e la maschera di Tomàs Avila

ANALISI CAM di Ludovica G.

È uscito per Netflix il 16 novembre Cam (2018), un film diretto da Daniel Goldhaber e scritto dallo stesso insieme a Isa Mazzei e Isabelle Link-Levy. La storia prende le mosse dall’esperienza personale della Mazzei come camgirl e la racconta attraverso il personaggio fittizio di Alice Ackerman, interpretata da Madeline Brewer già attrice nelle serie The Handmaid’s Tale e Orange Is The New Black.

Alice è una camgirl con una clientela di aficionados che si esibisce in vere e proprie performance, alcune delle quali un po’ bislacche e violente. Alcune ragazze di questo circolo si conoscono e fanno capo ad un locale, competono cercando di rubarsi posti in classifica.

Tutto fila liscio finché Alice, un giorno, non riesce più ad accedere al suo account Lola_Lola. Niente di assurdo: pane per i denti di chi si guadagna da vivere con internet. Lei non è online ma vengono mandate in live streaming le sue vecchie esibizioni e nessun servizio d’assistenza del sito, né le amiche, né la polizia, né la madre sembrano darle l’aiuto che disperatamente cerca.

Continuando a guardare quanto accade attraverso il suo account, comprende di trovarsi davanti a qualcosa di ben più grosso quando il suo alter ego Lola si esibisce con un’altra camgirl, BabyGirl, sebbene questa fosse defunta pochi mesi prima. Così, proprio l’aver scoperto della morte di BabyGirl diventa la chiave per capire tutto: un bot attinge dal materiale d’archivio online di Alice e di altre camgirls, lo riconverte creando materiale nuovo e riuscendo persino a interagire con i clienti attraverso un’automatizzazione delle risposte. Nonostante la realtà del problema si riveli sempre più grottesca e complessa, Alice non cerca più aiuto all’esterno ma si fa protagonista della propria storia, sino a salvarsi da sé. Una volta riuscita ad ingannare il bot ed eliminare il proprio account compromesso, decide di riaprine un altro e ricominciare.

Questo film horror che di horror ha solo la parvenza e in minima parte i contenuti, risulta formalmente un thriller giocato sulla paura atavica del perdere il controllo di sé stessi, della pazzia, in questo caso in versione 2.0: la paura di perdere il controllo dei propri sé virtuali, non meno corroborante.

Il sex working non è un tema portate per il film ma trasversale, forse proprio grazie a questa sua trasversalità viene normalizzato, senza sottese battaglie morali, senza neanche, però, una presa di posizione chiara. In questo modo, il risultato è paradossalmente più efficace rispetto a quello di film a tema analogo come The Girlfriend Experience (2009) di Soderbergh.

E ancora, il rapporto donna-donna: la protagonista una volta subito uno scacco, dubita in primo luogo delle sue colleghe, avendo già subito delle angherie dalle stesse. Quello della conflittualità interna ai gruppi femminili è un tema senza tempo, quasi impossibile da mettere da parte in film come Cam che fanno l’occhiolino a una innata – e presunta – competitività bagnata dal veleno, secondo un immaginario filmico che passa da Carrie (1976) sino ad arrivare a produzioni più commerciali come Ginger Snaps (2000).

Per temi ed estetica è impossibile non pensare a The Neon Demon (2016) e allo spazio che questo riserva alla protagonista femminile e ai personaggi femminili. Più in generale Cam è debitore del cinema di Refn, anche di lavori come Drive e Only God Forgives, per una fotografia soprassatura, dominata da piani in interni e luci al neon.

Non meno importante può essere il riferimento ad altre produzioni minori e antecedenti all’ultimo del regista danese, come Excision (2012) di Richard Bates Jr. candidato e vincitore di molti premi in festival di cinematografia indipendente, o ancora Excess Flesh (2015), entrambi film molto più crudi e violenti di Cam e di The Neon Demon, direi molto più ascrivibili al genere gore, ma con un’estetica molto affine e non meno definita.

Il finale è di sicuro l’elemento più interessante di questo film, nonostante il rischio di patetismo appena sfiorato con alcune scene che lo precedono di poco, degne di Ugly Betty, dove la protagonista si rimette a nuovo e decide, una volta eliminato il suo vecchio account compromesso, di ricominciare a lavorare come camgirl con il nome di EveBot.

La conclusione da adito a due reazioni, di empatia con la protagonista e con la sua volontà di rimettersi in gioco continuando a fare quello che faceva prima, o di biasimo perché non ha capito i pericoli nei quali incorre attraverso il suo lavoro né ha capito come scindere davvero la propria persona da un alter ego virtuale.

L’intento dichiarato dei registi sarebbe stato indurre all’empatia, soprattutto verso chi lavora con il sesso. Ma il finale non fa tirare un respiro di sollievo, non porta necessariamente a comprendere la scelta della protagonista, ma forse lascia più dubbi di quanti potessero essercene a priori.

L’AVATAR E LA MASCHERA di Tomàs Avila

Avatar, ovvero, “nel brahmanesimo e nell’induismo, la discesa di una divinità sulla terra, e in pratica ciascuna delle 10 incarnazioni del dio Visnù. Per estensione, nell’uso letterale, reincarnazione, ritorno, trasformazione e simili”[1]. Aggiornando il termine ai tempi del web, con avatar si fa riferimento all’Io virtuale, alla propria rappresentazione nel cyberspazio. Rappresentazione che però, quasi mai corrisponde all’Io del mondo reale.
Dai videogiochi come Second Life, ai social network, ai forum di discussione: l’avatar è una proiezione di ciò che vorremmo essere, o ciò che non possiamo essere e mai saremo nella vita reale.
Le possibilità sono illimitate e per questo non stona il richiamo all’avatar induista, inteso come una vera e propria divinità incarnata.

L’avatar è spesso ciò che vorremmo essere ed è quindi un travestimento, una maschera che indossiamo. Ognuno può avere infiniti avatar, come sono potenzialmente infiniti i ruoli che un individuo riveste nelle varie situazioni sociali reali.

Ma qual è il confine che separa il nostro Io del mondo reale dalla trasposizione nel cyberspazio?
Il confine diventa sempre più sottile fino a scomparire, i due mondi si compenetrano, non sono separati come qualcuno vorrebbe far credere.
Tra la proiezione virtuale dei nostri desideri, il personaggio che ci siamo creati e l’infinità di dati sul nostro conto che ogni giorno lasciamo su internet, è come se il nostro avatar diventasse sempre di più un alter ego. Il nostro cyber-Io diventa sempre più dettagliato, sempre più “umano”, arrivando a un livello di conoscenza dell’Io reale, che forse nemmeno noi stessi possediamo.

E allora cosa potrebbe succedere se, a un certo punto, questo sfuggisse al nostro controllo? Se la nostra ombra virtuale non si limitasse più ad essere una proiezione del nostro Io ma iniziasse ad agire come entità a sé stante?
Può sembrare una domanda simile alla classica questione sul personaggio interpretato che prende il sopravvento su colui che lo interpreta, cosa lontana dal mondo del web e ben nota da prima che internet esistesse. In realtà attraverso il web la situazione si complica ulteriormente, proprio perché personaggio e attore sono fisicamente distinti.

Daniel Goldhaber con Cam, intenzionalmente o meno, non importa, affronta questo tema complicatissimo e quanto mai attuale, fondamentale in molte delle opere contemporanee che hanno riflettuto su internet, una su tutte la serie di animazione giapponese Serial Experiments Lain, che arrivava addirittura a ipotizzare l’esistenza di un Dio immanente del web.
Si torna nuovamente all’avatar come divinità. E cos’è del resto il bot che dà vita a dei profili online che prima erano soltanto un imponente ammasso di bit?

Note:

[1] http://www.treccani.it/vocabolario/avatar/