Recensione Lost in Translation

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Immersi nelle sfavillanti luci di Tokyo, attraverso atmosfere che paiono rimanere sospese a mezz’aria, due personaggi che non riescono proprio a integrarsi nelle rispettive vite si incontrano nei corridoi di un albergo. Anzi, per meglio dire, si trovano affini, pur non avendo apparentemente nulla in comune.

Lei, Charlotte (Scarlett Johansson), [1] è una neolaureata in filosofia con una visione tremendamente pessimistica del futuro, un talento che non riesce a mettere in pratica e un marito alla quale non riesce a comunicare il suo sconforto per averla trascinata nell’ombelico di quel grande paese. Lui, Bob (Bill Murray), è un attore hollywoodiano che, attraverso la sua maschera sorniona, nasconde la realtà di una carriera ormai in decadimento.

Entrambi insonni e perennemente immersi nel groviglio dei loro pensieri, i due si ritrovano spesso al bar dell’albergo dove inizia una conversazione di sguardi e gesti apparentemente banali, enfatizzati dalla macchina da presa che mostra e non mostra, quasi avesse il timore a rivelare più di ciò che dovrebbe.

I due americani si ritrovano dunque a cercare un proprio posto all’interno di una cornice quasi surreale, circondata dalla cultura nipponica di fatto troppo distante e dalla lingua incomprensibile, quasi aliena; una cultura però che i due, in fin dei conti, non vogliono nemmeno del tutto comprendere (così come ci viene mostrato nelle passeggiate di Charlotte ai templi di Kyoto, che osserva tutto con distratta curiosità, senza capire).

Un po’ per noia, un po’ a causa di una realtà che appare come un onirico spazio di transizione, la comunicazione fra loro si srotola in dialoghi rarefatti, a tratti mediocri a tratti quasi filosofici, in un continuo aprirsi e chiudersi di porte che si ha il timore di varcare.


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D’altronde Sofia Coppola – buon sangue non mente – [2] si mostra abilissima a (non) raccontare una storia che si articola in aggregazioni per immagini, piuttosto che seguire banalmente il filo del discorso, il tutto con discrezione. Non a caso infatti, Charlotte e Bob non si sfiorano mai, il loro rapporto è quasi platonico; essi oltre al senso di solitudine e smarrimento, non hanno proprio nulla in comune, sono solo perduti o persi in una traduzione, anzi, nella traslazione di una relazione anima/corpo lontana dalle proprie abitudini.

Un altro punto importante della pellicola è proprio quello del potenziale rapporto sessuale tra Charlotte e Bob che non si consuma: lentamente esso sembra passare in secondo piano, non trova necessità di consumarsi per non perdere quel filo sottile che sta aiutando i due a ritrovarsi. Sempre per ribadire l’affinità creatasi fra anime e non tanto fra corpi.

 

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Sul finale, nella fredda sala d’aspetto di un ospedale, un vecchietto, traccia insistentemente un semicerchio nell’aria: un’ennesima probabile metafora del senso di mancanza provato dai due.

 

Ma clost-in-translationome si chiude il cerchio? Bob, finito il suo soggiorno nella psichedelica Tokyo, si prepara a tornare a casa e cerca Charlotte per un ultimo saluto, senza però trovarla. Apparentemente rassegnato, mentre si trova in taxi, quasi fosse una visione che ci riconduce ancora una volta alla tematica dell’onirico, scorge Charlotte tra la folla e la insegue. Dapprima i due rimangono in silenzio, come a rimarcare il senso di imbarazzo alla quale li costringe il loro corpo ma improvvisante Bob si china e sussurra nell’orecchio di Charlotte qualcosa che a noi non è dato sentire, all’interno di un delicato campo/controcampo. [3]

Poi si allontana sulle note di Just like honey.  E, probabilmente, è proprio nel momento di distacco estremo che il cerchio riesce a compiersi.

 

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Con Lost in Translation (letteralmente “perso nella traduzione”, in tal caso un doppio senso che indica le parole che perdono significato nel passaggio da una lingua all’altra e la perdita del sé dei protagonisti) [4] la figlia di Francis Ford Coppola rivela il suo tocco delicato nel seguire le vite dei personaggi, già lievemente accennato ne Il Giardino delle Vergini Suicide (1999), seppur partendo da un plot decisamente banale come l’incontro di due persone.

Nella prima parte della pellicola, la perdita del sé è illustrata tramite il continuo gioco di specchi: spesso i due si ritrovano di fronte a uno specchio e si scrutano, quasi a voler cercare di conciliare il loro doppione andato perduto. La tematica dello smarrimento invece viene accentuata tramite la decisione di situare la vicenda nei corridoi di un albergo, talmente vasto che non fatica a ricordarci un labirinto; la stessa Tokyo viene mostrata tramite una stupenda fotografia e campi lunghissimi, quasi a rimarcarne l’immensità e l’inevitabile spaesamento.

I “momenti di sospensione” ripresi dalla Coppola appaiono come particolare superflui, è solo amalgamati nel loro insieme che acquistano un senso e contribuiscono a creare l’atmosfera surreale che abbraccia la vicenda.

Con una Scarlett Johansson, appena diciottenne e un amabile Bill Murray, entrambi incredibilmente abili a comunicare l’alchimia dei due personaggi, la pellicola riesce a distinguersi per la sua delicatezza, qualcosa che nel duemila ormai si fatica incredibilmente a trovare.

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[1] l’interpretazione di Charlotte è valsa a Scarlett Johansson il BAFTA per migliore attrice protagonista

[2] Sofia Coppola si è aggiudicata l’Oscar a miglior sceneggiatura originale per Lost in Translation

[3] Sofia Coppola chiese al gruppo The Radio Dept di poter utilizzare alcuni loro brani per la colonna sonora di Marie Antoniette (2006), e si è sentita rispondere che glieli avrebbero concessi a condizione che lei rivelasse loro quale frase Bill Murray sussurra all’orecchio di Scarlett Johansson (fonte: Wikipedia)

[4] il titolo è tratto dalla frase di una poesia di David Frost che recita “poetry is what gets lost in translation” – “la poesia è ciò che si perde nella traduzione”.

Incommentabile lo scempio compiuto dai distributori italiani per la traduzione del titolo della pellicola che, quasi a sbeffeggiarsi del titolo inglese, sono riusciti a far perdere completamente il significato originario.

Scritto da: Molly