Father John e l’America di oggi

In Musica, Tancredi by scheggedivetroLeave a Comment

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Ho una buona e una cattiva notizia e, per una volta, forse è meglio cominciare con la cattiva.
La cattiva notizia è che le storie che tutti hanno da raccontare, spesso per paura che possano non risultare interessanti alle orecchie altrui, rimangano chiuse dentro i cuori-fortezza dei proprietari. La buona notizia è che Josh Tillman, in arte Father John Misty, abbia deciso di rischiare, di non preoccuparsi se la sua storia sarebbe potuta piacere e di porla come base per il suo nuovo album, I Love You, Honeybear, uscito lo scorso febbraio.
Con grande gioia dell’artista, I Love You, Honeybear ha fatto un po’ breccia ovunque e la critica l’ha accolto molto positivamente, forse attribuendogli più meriti di quanti ne abbia effettivamente, iperbolizzando la qualità dei contenuti.
Tuttavia va riconosciuto che questo secondo album sotto il nome di “Padre”, “Pastore” (il decimo, però, della sua carriera solista) ha certamente una qualche validità artistica e presenta dei pezzi dal grande impatto emotivo.

Father John raccoglie le radici cristiane della sua famiglia, le bolle in pentola e, come un abile stregone, sforna un groviglio di sentimenti, spesso controversi, nei confronti della stessa famiglia, della società e, infine, dell’amata moglie.
I Love You, Honeybear non è certamente un album facile e prevede in ogni canzone uno strato più o meno accentuato di ironia, che avvolge e mistifica l’opera. Il disco è composto di ballate folk dal gusto retro, esibendo elementi appena accennati di psichedelia in alcune canzoni e riprendendone il sound in maniera esplicita in altre, ad esempio in Strange Encounter, in cui la chitarra elettrica ricorda vagamente quella di Clapton in Disraeli Gears, o in The Ideal Husband, dove il folk viene quasi totalmente abbandonato in favore di un sound più rock, discostandosi sensibilmente dall’atmosfera generale che si respira nell’album.

misty_08Nel corso del long-playing spiccano infatti molte canzoni brillantemente folk, come la title-track, che espone in maniera concisa le tematiche del disco, oppure Nothing Good Ever Happens at the Goddamn Thirsty Cow, pezzo indirizzato sin dall’inizio sul country-blues e caratterizzato da un soffice tappeto di archi, ricordando le sonorità dei Fleet Foxes, band in cui Tillman aveva militato come batterista tra il 2008 e il 2012.
Eppure, Nothing Good… è un crescendo di sonorità sempre più aspre e il finale è il più adatto per accogliere le successive e già citate Strange Encounter e Ideal Husband.

Tra i brani che appaiono forse un po’ più deboli e meno efficaci nel trasmettere suoni e parole troviamo When You’re Smiling and Astride Me. Diverso è il caso di True Affection, che ad alcuni ascoltatori potrebbe risultare addirittura fuori luogo, dissonando notevolmente con il resto dell’album: in terza posizione nella scaletta, rappresenta l’unico esemplare nel disco di, chiamiamolo così, esperimento elettronico. Tale definizione potrebbe sedurre molti, ma la delusione sarebbe grande almeno quanto le aspettative createsi. Se la voce è perfettamente in linea con il “mood” dell’album, la base di sottofondo lascia alquanto a desiderare.

Se fino ad ora sembra che, fra alti e bassi, tutto sommato il disco non appartenga a chi sa quale pianeta di musica superba, ciò che dà quel tocco di “magia” al long-playing e consegna all’ascoltatore la sensazione di essersi arricchito tramite l’interiorizzazione dell’opera, o per lo meno di non aver perso 45 preziosi minuti della propria breve giornata, è da trovare nelle ultime tre tracce: Bored in the USA, Holy Shit e I Went to the Store One Day.

Fjm-iloveyouhoneybearLa prima, molto probabilmente un gioco di parole basato su “Born in the USA”, debutta come un melancolico e struggente pezzo accompagnato al piano, ma ben presto viene a galla l’ironia, il sarcasmo perfino, riversata sul paese cinquanta-stellato, andando a toccare tasti dolenti quali la cultura oppressiva e l’educazione definita “inutile”, data da una religione monopolizzante (nel testo si riscontrano epiteti quali “President Jesus”, per sottolineare l’importanza del Cristianesimo all’interno delle stesse strutture governative, o “White Jesus”, richiamando la delicata situazione razziale in America).
Come ciliegina sulla torta – per fornire quel tocco in più (pur sempre ironico) di “americanata”, Father John decide di farcire la canzone di risate in stile serie TV, attivate strategicamente al termine di ogni affermazione pungente.

Holy Shit probabilmente è la Canzone del disco, nonché una delle più brillanti che si siano sentite in giro ultimamente, in questo magro semestre di novità musicali.
Essa riprende le tematiche di Bored in the USA, in tutto e per tutto, ma le estende su scala globale, riferendosi in particolare alla mentalità della civiltà occidentale, in diacronia e in sincronia. Il tutto viene elegantemente incorniciato in pochi semplici, ma mai scontati, accordi. L’ultima strofa espone molto lucidamente un’etica d’amore basata sulla debolezza e sull’inopia delle persone.

Oh, and love is just an institution based on human frailty
What’s your paradise gotta do with Adam and Eve?
Maybe love is just an economy based on resource scarcity
What I fail to see is what that’s gotta do with you and me.

Con questi quattro versi finali Father John si rivolge in particolare alla moglie, così come nella canzone conclusiva, I Went to the Store One Day, che racconta come da incontri casuali possano nascere e svilupparsi legami forti: “il tutto solo perché un giorno sono andato al supermercato”. Il concatenarsi di eventi e i progetti futuri della vita di coppia sono argomenti centrali e specialmente gli ultimi sembrano non differire molto dalla “tipica vita agreste” dello “Americano medio” che vive la sua vita di buon cristiano in un ranch in un qualsivoglia stato dell’ex-Confederazione.
I Went to the Store One Day è una ballata acustica, leggera e raffinata che chiude in maniera riflessiva un disco solido, da esplorare con attenzione per poterlo apprezzare al meglio, e che dimostra come alcune sonorità date oramai per defunte siano ancora vive e sappiano rinnovarsi senza apparire come copie delle copie, seppur al prezzo di essere condite con una buona dose di “hipsteraggine”.