Colpevole d’ogni cosa

In AlexD., Musica by scheggedivetroLeave a Comment

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Quando vien fuori il termine shoegaze subito si balza con la mente ai cieli lattiginosi dell’Inghilterra di metà/fine Ottanta e l’idea comune è quella di locali underground dal pavimento appiccicoso, impenetrabili coltri di fumo passivo e un odore acre di sudore. E poi grigi maglioni logori e chiazzati e copertine di dischi che sono quasi sempre modeste incursioni nell’arte astratta. Ma, più di ogni altra cosa, salta in mente l’idea di un rumore talmente assordante da essere quasi tangibile.
Bene, io non so dire quanto di romanzesco ci sia in tutto questo, la mia giovane età non mi ha permesso di toccar con mano le pareti intrise di riverbero di quei localetti, e quel che so l’ho letto su riviste, webzine e libercoli vari, tuttavia mi rendo conto, guardando alla musica di oggi, che pochi dischi nella storia della popular music hanno assunto un così imperioso ruolo ispirativo quanto Loveless.

Figli più di uno shoegaze già pesantemente macchiato dall’alternative (à la Loop di A Gilded Eternity, per intenderci), che della trance trascendentale dei My Bloody Valentine di Loveless, i Nothing di Philadelphia sono una piccola recente rivelazione in ambito shoegaze.

Creatura principiata dalla disperazione del frontman Dominic Palermo (c’è molto poco di ironico in quanto detto), i Nothing prendono vita nel 2011 quando Palermo, reduce da due anni in gattabuia per aggressione aggravata e tentato omicidio, decide di ritornare a far musica (prima di finire in carcere era attivo nella scena hardcore di Philly, dove militava negli Horror Show e negli XO Skeletons), rilasciando un demo, Poshlost, sotto il nome di Nothing. Poche settimane dopo la pubblicazione, Palermo recluta il chitarrista Brandon Setta e il batterista Kyle Kimball, con i quali, nei due anni successivi, registra e dà alle stampe i due Ep Suns and Lovers (pubblicato per la giapponese Big Love Records) e Downward Years to Come (A389 Records). Le atmosfere cupe e dilatate di questi primi lavori lasciano già presagire una consistente stima che Palermo e i Suoi hanno per lavori come Pornography e Treasure. L’ingresso del bassista Nick Bassett completa la line-up della band, che, di lì a poco (Agosto 2013), firma con la Relapse Records, per la quale rilascia il singolo Dig, brano poi contenuto nell’album d’esordio Guilty Of Everything.

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E quindi eccolo. Nel marzo 2014 vede infine la luce il primo full length della banda, Guilty Of Everything.
Il disco inizia all’insegna dell’umore nero con Hymn to the Pillory, e subito una cisterna di riverbero ci si rovescia addosso. La quantità di riverbero è tale da poter far tranquillamente concorrenza agli Slowdive, e questo non è affatto un bene, giusto per chiarire. Gli omaggi alla musica albionica però terminano presto, poiché, se la forma è quella, ormai rodata, di Halstead e Soci, la sostanza della musica dei Nothing sta di casa dall’altra parte dell’Oceano, e non ci s’impiega troppo ad accorgersi che quello suonato dalla band di Philadelphia è uno shoegaze profondamente influenzato dalla gioventù alternativa dei Nineties americani. La voce di Palermo si dimostra a tratti debitrice della malinconia zuccherina del Billy Corgan di Mellon Collie, anche se non riesce a ritagliarsi uno spazio proprio, ritrovandosi, il più delle volte, a galleggiare sulla marea incontrastata di feedback, sovente costringendoci a doverla rincorrere (con risultati non troppo fortunati) nel marasma sonoro. A questo si aggiunge il fatto che i fraseggi sono spesso monocorde (Beat Around the Bush, B&E), il che dona all’impasto un effetto di “già sentito” arrivati appena alla metà del disco. Le chitarre, se vogliono, sanno essere taglienti come Moore&Ranaldo comandano (Dig), anche se per la maggior parte si limitano a costruire ariose architetture dal carattere assai cupo, a cui corrispondono testi altresì tetri. La batteria, apertamente in antitesi, contraddice per (quasi) tutto il disco l’etichetta di “shoegaze”, furoreggiando a più riprese e rappresentando quindi una presenza finalmente solida a cui appigliarsi nei momenti in cui ogni cosa sembra sgretolarsi (Somersault).
Ad ogni modo, i momenti migliori sono quelli dove Kimball, memore delle vecchie frequentazioni dei mosh pit più sanguinosi, spinge sul pedale dell’acceleratore. Il gruppo ci regala così l’impetuosa Bent Nail, che purtroppo si perde in una seconda parte mid-tempo che vanifica quanto di buono fatto fino a quel momento. Mi auguro che Palermo e Compagni si levino presto il vizio di chiudere con queste code strumentali dal sapore cosmico, perché mettono davvero a dura prova la buona volontà dell’ascoltatore. Della serie “Veloce è meglio Pt.2” merita sicuramente una menzione d’onore la solerte Get Well, forse il pezzo musicalmente più limpido di tutto il disco (le lyrics, di contro, sono più che mai affrante, in linea con l’atmosfera dell’album), che si rifugia sotto la grande ala maestra dei Dinosaur Jr, per poi lasciarsi andare ad un finale space epico e riconciliante. A sancire la parola “fine” di Guilty Of Everything ci pensa la traccia omonima. Palermo (astuto lui) risparmia il meglio per quest’ultimo brano, dove si spoglia emotivamente e si lascia andare ad un’accorata ammissione di colpa, spingendo (riuscendoci) su una significativa componente emozionale. Colpevole di tutto.
Al termine di questa traccia conclusiva la vocina della nostra coscienza insinua infida il dubbio che forse il disco non è stato poi così male. Sbagliato, poiché non sempre “tutto è bene quel che finisce bene”. Siamo obiettivi, questo è un lavoro che qualche spunto interessante lo offre senz’ombra di dubbio. Mi rallegra enormemente il fatto che l’immaginario da cui i Nothing prendono spunto sia non in misera parte quello americano, perché, onestamente, di un ennesimo calco dei Chapterhouse nessuno sentiva il benché minimo bisogno. Ma se la scelta delle armonie guarda più all’alt-rock americano che non ai coevi compagni inglesi, il torrente di riverbero che annega tutto e tutti senza indugiare è ancora troppo preponderante e le stratificazioni tentano continuamente di inghiottire, senza porsi scrupolo alcuno, qualsiasi cosa si pari loro davanti.
I Nothing sono rumorosi, sono pesanti, sono aggressivi, ma purtroppo non hanno artigli. Non graffiano. Sono colpevoli di un eccessivo indugiar sopra atmosfere dilatate e fin troppo eteree. La malinconia non si discute, chiunque ha diritto di essere infelice e farne poemi. L’inesperienza la si combatterà col passare delle primavere. E non è neanche la densità degli intrecci chitarristici o il volume omicida, il nodo focale è questo ammiccamento esagerato al rock sognante e rallentato dei Cocteau Twins: non se ne può più di sentire giovani seguaci ossessivi della musica di Shield e amichetti. La cosa, francamente, sta diventando asfissiante.
La speranza quindi è quella che, con i prossimi lavori, i Nothing possano approfondire la familiarità con Dinosaur Jr. e compagnia musicante, magari con un occhio di riguardo anche per le venature emo qui solo timidamente accennate. Per adesso è un inizio. Né eccessive infamie, né lodi sperticate, cortesemente.