Recensione The Mule- Il corriere

In Cinema, In Programmazione, Recensioni Film, Tomàs Avila by Tomas AvilaLeave a Comment

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Regia: Clint Eastwood.
Soggetto: Sam Dolnick.
Sceneggiatura: Nick Schenk.
Colonna sonora: Arturo Sandoval.
Direttore della fotografia: Yves Bélanger.
Montaggio: Joel Cox.
Produttore: Warner Bros., Imperative Entertainment, Bron Creative, The Malpaso Company, BRON Studios, Creative Wealth Media Finance.
Anno: 2018.
Durata: 116′.
Paese: USA.
Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Earl Stone), Bradley Cooper (Colin Bates), Manny Montana (Axl), Andy Garcia (Laton), Taissa Farmiga (Ginny), Laurence Fishburne (DEA Special Agent).

Torna Clint Eastwood con The Mule- Il corriere, che lo vede per la prima volta come regista e attore, dal 2008, quando ci regalò quel capolavoro assoluto che è Gran Torino, summa della sua poetica e del suo modo di vedere il mondo.

Earl Stone è un anziano, odiato dalla ex moglie e dalla figlia e rimasto al verde perché non si è mai preoccupato di garantire un futuro a sé e ai suoi cari
Per questo motivo, quasi per caso, diventerà un corriere per un cartello messicano.
Questo nuovo “lavoro” sarà l’inizio di un viaggio, sia fisico che psicologico, che lo porterà a fare i conti con i suoi errori e a tirare le somme della sua vita.

Alla veneranda età di 88 anni, Eastwood dimostra per l’ennesima volta di essere una delle poche personalità contemporanee in grado di raccontare l’America per quello che è realmente, senza ipocrisie, senza la retorica da quattro soldi dei film sempre più premiati dall’Academy ma con l’onestà e la semplicità di un uomo che ha visto e vissuto quasi un secolo in cui il suo paese è profondamente cambiato e mutato, così come la società nel complesso.

Eastwood non nasconde di provenire da un’altra epoca, anzi lo mette continuamente in evidenza, senza per questo risultare vecchio, passato. Al contrario dimstra una lucidità e un’apertura mentale che pochi possono vantare, come dimostra chi critica le sue opere, accusandole di essere nazionaliste, eccessivamente patriottiche e retoriche.

Earl Stone è un reduce di guerra, amato da tutti gli abitanti del suo paese (un classico paese della provincia americana), ad eccezione della sua famiglia, divisa tra chi lo odia e chi fa finta che non esista, tranne la sua giovane nipote, l’unica a dargli ancora fiducia.
Earl ha passato la sua vita a viaggiare per l’America con un pickup che ormai cade a pezzi, senza preoccuparsi troppo del domani, vivendo il momento.

Rispetto allo scorbutico protagonista di Gran Torino, Earl è simpatico, scherzoso, sempre con la battuta pronta, anche nelle situazioni più drammatiche. Fin dall’inizio ha a che fare con messicani e afroamericani: non siamo più davanti a un racconto di accettazione del diverso, come nel caso del film del 2008.
Quella di Earl, e di Eastwood, non è la falsa retorica dell’accettazione che ci viene continuamente riporoposta e che è ormai uno dei trend imperanti.
Il protagonista aiuta degli afroamericani a cui si è guastata l’auto in mezzo al deserto, chiamandoli però “negri”, con l’ingenuità di chi veramente viene da un’altra epoca e se ne frega completamente del falso perbenismo e delle battaglie per l’uguaglianza combattute su idiozie quali la quantità di volte che la parola “negro” viene detta nei film di Tarantino.
Un episodio simile avviene con delle lesbiche motocicliste, a dimostrazione del fatto che la semplicità di cui viene spesso accusato Eastwood in realtà è l’arma più efficace per combattere il modo in cui queste tematiche vengono trattate attualmente.

Eastwood racconta un’America in crisi, e una generazione, la sua, che per molti versi non capisce più il mondo di oggi, ad esempio il fatto che ormai si stia sempre attaccati al cellulare, ma che allo stesso tempo ripensa ai propri errori e forse riesce in parte a rimediare, colmando le proprie mancanze.

Il regista porta avanti un discorso che, incredibile come ancora in molti non l’abbiano capito, è apolitico, un discorso umano, universale. E nonostante ciò ancora c’è chi si appiglia al fatto che sia repubblicano, cosa per altro non corretta, interpretando i suoi film in un’ottica strettamente politica.

Niente di più distante da quello che Eastwood cerca di fare da anni a questa parte con il suo cinema, raccontando l’America, raccontando storie di personaggi, spesso antieroi, che portano avanti una propria visione del mondo, dei propri valori, una propria morale che sarebbe semplicistico e profondamente sbagliato ricondurre a un quache schieramento politico.

E a proposito di umanità, sempre in quest’ottica va visto lo scontro/incontro tra Earl e il poliziotto che gli dà la caccia, interpretato da Bradley Cooper. Rievocando Heat- La sfida, uno dei più grandi neo-noir, entrambi i personaggi accettano il proprio destino, sanno che di essere da due parti opposte ma si stimano e rispettano a vicenda.

Eastwood, ormai alla soglia dei 90 anni, ha fatto di tutto nella sua vita: ha fatto cinema, ha fatto musica, ha dato vita a personaggi entrati nell’immaginario collettivo, è stato spesso al centro di scandali per le sue idee spesso difficile da inquadrare perché trascendono le categorie alle quali si cerca di ridurre il mondo contemporneo.
Quello che possiamo fare, quando gira un film, è semplicemente guardare, ascoltare cosa ha da dire e imparare, perché alla soglia dei 90 anni, Clint Eastwood rimane uno dei pochi cantori dell’America.

 

 

Scritto da: Tomàs Avila.