Monografia di Michael Mann. Parte 4- Analisi The Keep: La Fortezza

In Analisi film, Cinema, Michael Mann, Tomàs Avila by Tomas AvilaLeave a Comment

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Regia: Michael Mann.
Soggetto: tratto dal romanzo The Keep di F. Paul Wilson.
Sceneggiatura: Michael Mann.
Colonna sonora: Tangerine Dream.
Direttore della fotografia: Dan Laustsen.
Montaggio: Dov Hoenig, Tony Palmer.
Produttore: Paramount Pictures, Associated Capital, Capital Equipment Leasing.
Anno: 1983.
Durata: 96’.
Paese: USA, UK.
Interpreti e personaggi: Scott Glenn (Glaeken), Alberta Watson (Eva Cuza), Jurgen Prochnow (Woermann), Ian McKellen (Dr. Theodore Cuza), Gabriel Byrne (Kaempffer).

Dopo l’esordio televisivo con The Jericho Mile e quello cinematografico con Thief- Strade Violente, Michael Mann, arrivato al suo terzo lungometraggio, ha realizzato il film più atipico e difficilmente inquadrabile della sua carriera. L’unico horror della sua filmografia, anche se, come vedremo, il suo stile è anche in questo caso inconfondibile.

Nel 1941, un plotone di soldati tedeschi arriva in un piccolo paese in Romania, in cui è presente una fortezza misteriosa il cui scopo non è ben chiaro. I soldati risvegliano una forza malvagia (Molasar) che inizierà a decimare il plotone. Verrà chiamati in soccorso un professore ebreo e sua figlia, fatti uscire eccezionalmente da un campo di concentramento, per risolvere il mistero di alcune scritte comparse sui muri della fortezza.
Allo stesso tempo un uomo misterioso (Glaeken) parte dalla Grecia in direzione della fortezza, per contrastare Molasar.

Indice:
Introduzione
I problemi produttivi
Tra classicismo, Nuova Hollywood e postmodernismo
La fiaba e la storia
Conclusioni

 

INTRODUZIONE 

The Keep- La Fortezza può essere considerato uno dei tanti film maledetti della storia del cinema, quasi disconosciuto da Mann che ne ha sempre parlato poco. È stato mutilato dai produttori, passando da una durata iniziale che si presume sarebbe dovuta essere oltre le tre ore, ad appena 96 minuti del final cut. Un film che è stato accolto disastrosamente sia dal pubblico che dalla critica e che in seguito non ha avuto una grande distribuzione per l’home video; tuttora non è reperibile una versione blu-ray del film ma solo qualche vecchio dvd e vhs.

Nonostante ciò, o anzi forse proprio per questo motivo, col passare degli anni è cresciuto l’interesse verso The Keep e l’alone di mistero che lo accompagna, tanto che ad oggi lo si può considerare un piccolo cult, con addirittura dei siti dedicati esclusivamente al film.
L’interesse di certi fan per tutte le vicende produttive di The Keep ha portato addirittura alla realizzazione di un documentario intitolato A World War II Fairytale: The Making of Michael Mann’s The Keep.
In effetti c’è molto da dire riguardo al film maledetto di Mann che, troppo spesso, viene liquidato semplicisticamente e demolito senza un minimo tentativo di analisi.
C’è da dire che non è sicuramente una pellicola di cui è semplice scrivere, sia per via della scarsità delle fonti, a differenza di quasi tutti gli altri film del regista, sia perché non potremo mai vedere il film come lo aveva in mente Mann.
Nonostante le difficoltà, cercherò di dare un’idea di ciò che The Keep è e soprattutto di ciò che sarebbe dovuto essere.

I PROBLEMI PRODUTTIVI 

Partiamo subito con la travagliata vicenda produttiva. The Keep è tratto dall’omonimo libro di F. Paul Wilson, stravolto da Mann (anche sceneggiatore) che non ha mai nascosto di non apprezzare l’opera dello scrittore. Era più che altro interessato all’ambientazione, quindi ha eliminato molti elementi che caratterizzavano il romanzo, uno su tutti il fatto che il mostro fosse molto vicino alla classica figura del vampiro. Mann, ritenendo che non funzionasse bene e soprattutto non volendosi inserire in un filone già molto prolifico come quello dei vampiri, cambiò i connotati del mostro, trasformandolo alla fine in una specie di Golem.
Le riprese cominciarono nel settembre del 1982 e il budget previsto dalla Paramount Pictures era di circa 6 milioni di dollari.
Il progetto era estremamente ambizioso, non un b-movie come è stato da molti considerato, ma un film di 210 minuti che avrebbe dovuto, nelle intenzioni di Mann, riflettere sulle origini psicologiche del nazismo.
Furono coinvolti nomi di un certo peso: Enki Bilal (fumettista noto per opere come La trilogia di Nikopol) si occupò del design di Molasar; la colonna sonora fu affidata ai Tangerine Dream, pionieri della musica elettronica, che già avevano collaborato con Mann in Thief; degli effetti visivi se ne occupò inizialmente Wally Veevers che aveva alle spalle film come 2001: Odissea nello Spazio, Superman, The Rocky Horror Picture Show e molti altri.
Per il finale furono realizzate ore e ore di riprese e nelle intenzioni avrebbe dovuto richiamare la celebre scena del viaggio interdimensionale di 2001: Odissea nello Spazio: Glaeken e Molasar avrebbero dovuto combattere in cima alla fortezza, aprendo una specie di portale spazio-temporale.
La produzione subì però una battuta d’arresto quando morì l’effettista Wally Veevers. Come lo stesso Mann ha specificato, le ore di riprese effettuate per il finale vennero praticamente buttate via perché solo Veevers aveva idea di come combinarle e realizzare gli effetti. Siccome Veevers non lasciò nessun appunto scritto, Mann fu costretto a rigirare molte scene. Cambiò inoltre il direttore della fotografia: Alex Thomson, che aveva lavorato a film come Legend, Alien3 ed Excalibur fu sostituito da Roy Filed, che aveva precedentemente partecipato alla realizzazione degli effetti visivi della pellicola.

Le riprese si prolungarono a 22 settimane, il budget venne sforato, superando gli 11 milioni e inoltre Mann si trovò con circa 260 riprese a cui dovevano essere applicati effetti speciali, cosa di cui si occupò lui stesso in seguito alla morte di Veevers. L’uscita del film venne infine posticipata di mesi.

Dagli iniziali 210 minuti di durata, il film venne ridotto a circa due ore ma, visti i pessimi esiti dei primi test screen, venne deciso di tagliare circa trenta minuti, arrivando alla durata finale di 96 minuti, contro la volontà del regista.

Da qui derivano i vari buchi di trama e le discutibili scelte di montaggio che rendono molto oscuri certi passaggi narrativi che nel libro sono invece chiari.

TRA CLASSICISMO, NUOVA HOLLYWOOD E POSTMODERNO 

Come per ogni film di Mann, sarebbe sbagliato parlare di b-movie. Le ambizioni del regista anche in questo caso erano molto grandi e non era sua intenzione realizzare un “semplice” horror.
Nonostante ciò tuttavia, possiamo certamente considerarlo come un film d’orrore, con varie incursioni in altri generi cinematografici come il war movie ed è quindi interessante cercare di inquadrarlo nel periodo storico in cui è uscito.
Nell’articolo in cui ho introdotto Michael Mann mi sono soffermato sul fatto che, nonostante anagraficamente appartenga alla generazione di registi della Nuova Hollywood, sia sempre stato in realtà a metà tra due generazioni: quella della New Hollywood appunto e quella dei registi postmoderni emersi nel decennio degli ’80.
The Keep uscì nel 1983, a ormai 15 anni di distanza dal 1968, l’annata che rivoluzionò il cinema horror con La notte dei morti viventi e Rosemary’s Baby, mettendo le basi per ciò che sarebbe stato fatto nel decennio successivo.
Mann si approcciò quindi al genere in un periodo in cui l’orrore era già stato trasferito dai castelli gotici e le ambientazioni lontane dalla realtà quotidiana, che caratterizzavano ad esempio il ciclo dei mostri della Universal e i film della Hammer, al mondo di tutti i giorni, quello reale e vicino agli spettatori, grazie ai film di Hooper, Craven, Romero e via dicendo.
Non solo, nel 1983 l’horror dei ’70 era ormai quasi tramontato, lasciando spazio al sempre più ingombrante sottogenere dello slasher. Per fare un esempio, nel 1984 sarebbe uscito il quarto capitolo della saga di Venerdì 13. Era già cominciato quell’impoverimento del cinema horror che avrebbe portato un regista come Craven, poco più di dieci anni dopo, a parodiare il genere con Scream.
Si pensi inoltre che sono del 1983 film come Miriam si sveglia a mezzanotte di Tony Scott e Videodrome di David Cronenberg, un periodo insomma in cui ci si stava spostando sempre di più verso il cinema postmoderno che molti fanno cominciare nel 1982 con Blade Runner.

In questo contesto storico si inserisce The Keep.
Per prima cosa va detto che Mann è molto distante dal New Horror dei ’70, lo si capisce fin dal principio, soprattutto dall’ambientazione spazio-temporale.
L’orrore viene riportato, come un tempo, lontano dal mondo in cui vivono gli spettatori del film, sia perché è ambientato in un paesino desolato della Romania (ricostruito in studio negli Stati Uniti), sia perché il periodo è quello della seconda guerra mondiale.
Il film si differenzia notevolmente anche dagli slasher, avvicinandosi di più, in un primo momento, agli horror gotici che andavano in voga prima del 1968.
Con la differenza che, come già accennato, Mann non era intenzionato a girare un film dell’orrore ma qualcosa che si avvicinasse a un’esperienza onirica, un sogno ad occhi aperti.
Quindi, come sempre accade col regista, l’ispirazione proviene da fonti classiche che vengono poi rimodellate e fatte diventare qualcosa di nuovo.
Chiaramente si nota l’influenza del cinema espressionista tedesco, come ribadito dallo stesso Mann, che si può ritrovare nelle ambientazioni, nell’uso delle ombre e anche nel tema del sogno/allucinazione, che caratterizzava ad esempio uno dei classici dell’espressionismo come Il gabinetto del dottor Caligari.
D’altra parte però, si nota l’attenzione del regista sull’elemento dell’occhio e sul tema della visione, fondamentale in molti film postmoderni, in primis il già citato Blade Runner.

Insomma da questo punto di vista si riconosce chiaramente lo stile di Mann, un ponte tra tre epoche cinematografiche: quella classica, quella moderna e quella postmoderna. Un miscuglio di influenze e generi cinematografici in cui è impossibile non leggere chiaramente la firma del regista.
La differenza principale, rispetto alle sue altre opere di questo periodo, è che The Keep non ha avuto una grande influenza sul cinema a venire, come l’hanno avuta invece Thief- Strade Violente e Manhunter, sicuramente perché si tratta di un film incompleto e mutilato dalla produzione.

LA FIABA E LA STORIA 

Quali erano quindi le intenzioni di Mann?
“Volevo fare un film sulle origini psicologiche del fascismo, la sua natura, e l’attrazione che può avere per molta gente. In questo senso, doveva essere molto vicino a una fiaba. Insisto sulla fiaba perché, a differenza delle favole, le fiabe si rivolgono all’inconscio. Ho sempre pensato che se hai un grande interesse nelle favole, sei un credente; ma se sei attratto dalle fiabe, sei assolutamente Freudiano. The Keep doveva essere l’adattamento del libro di Bettelheim, una psicanalisi delle fiabe. Parlo al passato perché il mio film fu macellato e la mia idea iniziale fu largamente distorta.
Stavo cercando di scovare l’universalità degli impulsi fascisti. Il fascismo non è stato percepito soltanto come un movimento politico, ma anche come un dato psicologico a cui alcuni individui sono più soggetti di altri.”[1]

Da questo estratto di intervista si può capire cosa intendo quando scrivo che The Keep non era stato concepito affatto come un b-movie ma era anzi un progetto molto complesso.
L’idea di far convergere la Storia e la fiaba, di usare l’elemento fantastico come metafora non può non ricordare i film di Guillermo Del Toro, come La Spina del Diavolo, Il labirinto del Fauno e il recentissimo The Shape of Water.
Un’idea di base molto simile che però viene sviluppata in due modi diversi. Se i film di Del Toro sono molto diretti, semplici (assolutamente non in senso dispregiativo) e puntano direttamente alle emozioni dello spettatore, Mann ha cercato invece di far provare delle sensazioni simili a quelle che si provano quando si sogna, tentando di arrivare direttamente al subconscio degli spettatori, mettendo in scena il perturbante, attraverso il genere horror. Possiamo pensare ad esempio al cinema di David Lynch che, per quanto diverso, mira proprio a questo.

Mann ha ribadito in più interviste che, cercando di creare un’atmosfera onirica, non diventava più necessario uno sviluppo narrativo logico, dominato dal rapporto causale e in cui ogni passaggio di trama fosse cristallino.
Queste intenzioni si percepiscono, anche se non si possono dire compiute, a causa di tutto ciò che ho detto finora. Ma si capisce benissimo ciò che Mann intendeva fare, soprattutto su due piani: l’estetica è come sempre estremamente curata e in alcune scene in particolare in grado di trasmettere quell’atmosfera onirica cara al regista; in secondo luogo la splendida colonna sonora dei Tangerine Dreams che contribuisce a creare un clima sospeso e misterioso.

Anche in questo caso, come accadrà nelle successive opere del regista, specie con l’avvento delle tecnologie digitali di ripresa, si può notare la tensione tra il realismo e il fantastico.
Mann si è premurato di utilizzare mezzi di trasporto, armi e vestiti utilizzati realmente dalle SS durante la seconda guerra mondiale. Un’esigenza di realismo che si intreccia con l’astratto e l’irreale (“dreamy” è per l’esattezza la parola usata da Mann nelle interviste[2]). L’atmosfera sospesa tra realtà e sogno tornerà con ancora più forza nel film successivo, Manhunter.

Nonostante i tagli, resta comunque qualcosa a livello tematico di ciò che voleva fare il regista.
Innanzitutto è particolare il rapporto dello spettatore con i personaggi che vengono massacrati da Molasar. Da una parte si prova paura e si è inquietati dalle apparizioni del mostro, dall’altra però si è quasi portati a fare il tifo per lui visto che le sue vittime sono i soldati nazisti. La stessa cosa pensa il personaggio interpretato da Ian McKellen, facendosi attrarre dalle promesse di Molasar di difendere gli ebrei ed eliminare i nazisti, nonché dal suo sconfinato potere. A ciò va aggiunto che Molasar ha un design che ricorda molto quello di un Golem (un altro rimando al cinema espressionista, in particolare a Il Golem- Come venne al mondo), una creatura della mitologia ebraica. Ci si trova quindi posti davanti a due personificazioni del male: il mostro e il nazismo, messi a confronto è difficile stabilire quale sia il peggiore.

In certi momenti del film si sentono addirittura degli echi lovecraftiani, come nella scena in cui i due soldati tedeschi tolgono una delle croci dal muro della fortezza e scoprono che al di sotto di questa si apre uno spazio sconfinato che ricorda i mondi delle creature preistoriche immaginate dallo scrittore statunitense.
I protagonisti si trovano in mezzo a uno scontro tra Bene e Male che sembra andare avanti da sempre.

CONCLUSONI 

Apparirà ora più chiaro cosa The Keep, il film maledetto di Michael Mann, sarebbe potuto essere.
Le ambizioni spropositate del regista andarono per la maggior parte in fumo e la versione del film da 96 minuti ha infiniti difetti, tra passaggi poco chiari e scene che sembrano essere state inserite senza alcun senso. Se si conoscono però tutti i retroscena si riesce meglio a comprendere e a inquadrare The Keep all’interno della filmografia di Mann.
Visivamente il film è in grado di sorprendere anche nella sua versione massacrata dai produttori e non mancano dei momenti di grande cinema in cui si riesce a capire esattamente ciò che Mann voleva fare.
Per concludere, quando si guarda The Keep, bisogna tenere a mente sempre una cosa: è soltanto la punta dell’iceberg di un film che, molto probabilmente, nella sua versione da 210 minuti, sarebbe potuto essere grandioso.

 

Scritto da: Tomàs Avila.

 

Bibliografia e Sitografia:

 

Note:

[1] https://www.lesinrocks.com/1996/02/21/cinema/actualite-cinema/michael-mann-11236406.

[2] Castle ‘Keep’, Kennedy Harlan, Film Comment, Nov/Dec 1983, 19,6, ABI/INFORM Collection, pg. 16.