Cercando un nuovo New Jersey

In Musica, Tancredi by scheggedivetroLeave a Comment

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L’indie è un panorama musicale molto vasto e accidentato, che offre un’ampia scelta e, come si suol dire, ce n’è per tutti i gusti e per tutte le occasioni.
Poi, si sa, alcune band ottengono un maggiore successo o una migliore visibilità a seconda delle esigenze degli ascoltatori che normalmente, senza togliere alcun merito a tali sottogeneri, si avvicinano molto alle sonorità più prossime al pop o, ultimamente, all’elettronica.
Il grande dramma dell’indie risiede, secondo il parere dell’individuo scrivente, nella grande concezione di essere “hipster” o essere “mainstream”, escludendo sin dal principio la possibilità di essere una via di mezzo tra le due cose, oppure di non riconoscersi affatto in una delle due scuole di pensiero, o ancora di essere totalmente disinteressato a queste smancerie.
Perciò, l’analisi del seguente gruppo, seguirà un filone del terzo tipo sopracitato, tralasciando la teoria del “questa cosa mi piace perché non la conosce nessuno e, tra l’altro, quanto sono fico!?” e seguendo più una scelta di sottogenere all’interno del grande scaffale dell’indie, legata all’attitudine musicale propria del punk rock. Dunque tenetevi pronti, perché si farà tanto rumore.

I Titus Andronicus sono sicuramente una delle band più interessanti costituitesi nell’ultimo decennio; partono da basi consolidate da anni e riprendono generi e tendenze già esistenti: le storie narrate hanno echi lontanamente springsteeniani (e più volte non viene nascosta questa loro devozione), le sonorità sono fortemente radicate nel lo-fi/folk psichedelico dei Neutral Milk Hotel, i membri del gruppo hanno l’aspetto trasandato ma allo stesso tempo “giovane e belloccio” delle band indie e il tutto è insaporito da una sana spontaneità e, passatemi il termine, “incazzatura” tipica del punk.

Detto così, sembrerebbe che questi baldi giovincelli del New Jersey abbiano sempre vissuto a spese dei propri avi, semplicemente replicando melodie già testate che hanno avuto in linea di massima un buon riscontro critico, errando per paludi oramai esplorate e bonificate. Tuttavia questi elementi sono stati amalgamati in maniera da offrire a un pubblico non eccessivamente vasto una prova di onesta autenticità, rimescolando le carte in tavola e regalando qualcosa di nuovo e sincero.
Queste sensazioni possono essere riscontrate nell’album di debutto The Airing of Grievances (2008), da cui scaturisce una vampata di sbraiti esuberanti, già capaci di dimostrare le abilità compositive del gruppo, rimanendo tuttavia in un ambito sonoro ancora troppo crudo, indefinito e primordiale, che qualcuno potrebbe apprezzare giocando queste grezze caratteristiche sicuramente a favore dell’autenticità prima declamata.

Il grande passo in avanti stilistico si può però universalmente riconoscere nell’album sophomore The Monitor (2010), coraggioso concept dal sapore storico – vari sono i riferimenti alla Guerra di Secessione Americana – che offre una miriade di passaggi ammirevolmente ambiziosi, nonché una serie di veri e propri inni da cantare a squarciagola nella propria cameretta, immaginandosi di prendere parte a una qualsivoglia scorribanda nei boschi del Vermont.
Il disco, infatti, si apre con il più immediato di questi anthem, A More Perfect Union, e proprio grazie alla sua immediatezza e alla grintosa chitarra distorta catapulta l’ascoltatore nelle intricate vicende dell’album, da cui ognuno a suo modo cercherà di estrapolare un significato ultimo, guidato anche dagli intermezzi parlati recitanti i più svariati discorsi di poeti, attivisti e politici americani dell’Ottocento.

Già in questa traccia sono lampanti i riferimenti alla Guerra Civile e a Springsteen (“’Cause tramps like us, baby, we were born to die” è una personale rivisitazione del testo di Born to Run), trasmettendo già da subito feroci impulsi di americana e i ritmi del motivetto che pervadono la canzone risultano impossibili da non apprezzare, specialmente quando essi si ripresentano una seconda volta nel giro di pochi minuti.
Con la frenetica ballata punk Titus Andronicus Forever la miccia è già innescata e la transizione dal primo album a questo successivo è presto fatta: si tratta, come più avanti si capirà, di un processo irreversibile, ma i Titus sono pronti a giocare il tutto per tutto, ormai sono in ballo e continuano a ballare.

Titus Andronicus The Monitor

Titus Andronicus Forever, per quanto strutturalmente semplice, è una traccia fondamentale in quanto introduce in maniera del tutto evidente il tema del “nemico” (la frase “The enemy is everywhere” è ripetuta per l’intero minuto e cinquantacinque di durata), ricorrente in tutto l’album (si veda ad esempio Four Score and Seven) e dalla matrice quasi hobbesiana.
Da No Future Part 3: Escape from No Future si percepisce che l’album ha assunto toni ben diversi, molto più introspettivi rispetto al precedente, pur delineandosi un certo continuum con esso (le prime due parti di No Future sono infatti contenute in The Airing of Grievances).

Le canzoni si fanno lunghe, complesse, composte al loro interno da più parti incastonate fra loro, che consegnano all’album una certa importanza e magnificenza: A Pot in Which to Piss è forse il brano cui calza meglio questa etichetta.
Divisibile in quattro parti, si ritrae come un’isola all’interno del disco, inizia come un inno di tristezza per poi riempirsi di solennità e l’entrata prima delle chitarre distorte che avevano vegliato per qualche minuto sulla voce e in seguito del piano e dei fiati ne è la testimonianza, dichiarando attraverso la sua musica, specialmente nell’ultima parte, l’amore incondizionato per le sonorità dei Neutral Milk Hotel.

Theme from “Cheers”, con i suoi ritmi sfrenati e folkeggianti, appare come una momentanea deviazione di percorso: tutto ciò che viene rimuginato nelle canzoni precedenti sembra essere messo da parte e le battaglie combattute fino a questo momento per raggiungere le proprie aspirazioni sembrano non avere più valore, venendo riassunti in un semplice “What the fuck were they for anyway?”. Sembra quasi che i Titus stiano cercando di tornare alla scherzosità del primo LP, ma la sensazione è breve giacché To Old Friends and New presto prende il suo posto e con la sua dolce lentezza e con il suo testo a dir poco strappalacrime cantato da una voce femminile, si colloca come uno dei punti cardine dell’album, il quale, dopo una breve reprise di Titus Andronicus Forever (intitolata non a caso …And Ever), un raptus rock’n’roll accompagnato da uno scatenato sax alla Clarence Clemons, viene concluso dalla magistrale The Battle of Hampton Roads, straordinaria musicalmente, ma piuttosto deludente e incerta da un punto di vista concettuale.

La traccia, infatti, si pone come un ampio riassunto delle tematiche proposte nei nove brani precedenti in tutte le loro sfaccettature esistenziali. Il titolo si riferisce alla battaglia navale combattuta tra lo USS Monitor dell’Unione (da qui il titolo del long-playing) e il CSS Virginia degli Stati Confederati, conclusasi senza alcun apparente vincitore. Così come il finale di quella battaglia fu confuso, il concept pare vacillare e l’esito dell’album è così criptico e indefinito da dare quasi una sensazione d’incompiutezza e dopo 65 minuti, forse troppi per un disco di questo genere, si fatica ad estrapolare un senso univoco.

The Monitor è un album dai paesaggi incredibilmente affascinanti, ma il suo sviluppo prende una piega fin troppo prolissa e il risultato è un ascolto difficoltoso, se non addirittura stancante, nei suoi passaggi più intricati: un esperimento ardito ed eterogeneo, che ha consegnato al pubblico contemporaneamente frutti prelibati e insipidi, concedendo emozioni profonde, ma allo stesso tempo incomprensibili. Forse è proprio questa impossibilità di comprenderlo appieno che ha stregato così tanto la critica, tant’è che i Titus saranno acclamati persino da Rolling Stone come una delle migliori band emergenti del 2010.

Il 2012 ha visto l’uscita di Local Business, terzo LP della band, che presenta un’inversione di tendenza rispetto al precedente (forse anche in vista dell’apprezzamento dell’appena citata rivista americana), avvicinandosi a sonorità più orecchiabili e dannatamente, odio dover pronunciare questa parola, commerciali. Se The Airing of Grievances era stato un frizzante debutto pieno di grandi speranze e The Monitor era in parte riuscito a tenere fede ad esse, Local Business si pone come una completa caduta di stile, se non un fallimento quasi eclatante.
Al momento la band sembra versare in una fase di stallo creativo, non avendo ancora annunciato un quarto full length, lasciando i fedeli sostenitori con il fiato sospeso e con un grande quesito: sarà la band capace di ritornare ai primi entusiasmi e regalare un quarto album che possa esprimere interamente le capacità di questi talentuosi ragazzuoli? Per ora, saluti da un quasi rinnovato New Jersey.