Analisi Matrix Resurrections (contiene spoiler)

In Analisi film, Tomàs Avila by Tomas AvilaLeave a Comment

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Matrix: influenze ed eredità

Sull’onda delle innumerevoli operazioni di reboot, remake, prequel e soprattutto degli universi cinematografici, i metaversi e via dicendo, non poteva certamente mancare la riesumazione di una saga come quella di Matrix.

La trilogia di Matrix, cominciata nel 1999 e proseguita nel 2003 con il secondo e terzo capitolo, era stata miracolosamente abbandonata, lasciata in pace, in primis dalle sorelle Wachowski, che si sono sempre dette contrarie al rimettere mano a quella che, ad oggi, resta la loro più grande opera.

Nonostante ciò, Matrix è cresciuto nel corso degli anni, non ha mai smesso di essere rilevante, anzi, probabilmente ha acquistato importanza col passare del tempo.

È impossibile riassumere in poco tempo l’influenza che Matrix ha avuto, in vari ambiti della nostra società. In particolare, il primo capitolo si è impresso nell’immaginario collettivo, indelebile, spesso anche frainteso, sovrainterpretato, anche mal interpretato.

In tempi non sospetti, le Wachowski avevano già intuito che il futuro dell’intrattenimento sarebbe stato trans-mediale, un continuum tra un medium e l’altro, tra cinema, fumetto, animazione, videogioco, libro.

Una forma d’intrattenimento fluida e pervasiva, un’idea di serialità complessa, una sorta di puzzle in cui, per avere il quadro completo, non bisogna limitarsi alla sola trilogia cinematografica.

Gli altri media, dunque, non erano una semplice estensione ma una parte integrante della narrazione.

In questo senso, le Wachowski dimostravano di saper guardare molto lontano, anticipando una tendenza che, nel corso degli ultimi 10-15 anni, è diventata dominante, con l’esempio più emblematico dell’universo cinematografico Marvel.

Matrix però non è andato a segnare esclusivamente l’industria cinematografica (o dell’intrattenimento in senso lato) ma, come già detto, si è impresso nell’immaginario collettivo, nella cultura pop.

Ogni aspetto di Matrix è stato ripreso, riutilizzato, reinterpretato nei due decenni che hanno seguito il primo film.

I vestiti indossati dai protagonisti sono diventati una moda, le scene d’azione hanno fatto scuola e non si contano le infinite citazioni (da Shrek al recente sequel di Space Jam, passando per un’infinità di altre opere), le suggestioni filosofiche di Matrix sono state fatte proprie da schieramenti politici (l’alt-right statunitense [1] [2] [3]) e da sottoculture (gli incel [4]).

Si sprecano poi le infinite interpretazioni della saga che ha portato alle più disparate riflessioni filosofiche, psicologiche ed esistenziali, non ultima la rilettura in chiave transgender, che ha preso particolarmente piede a seguito della transizione di entrambe le Wachowski, che hanno avuto modo di parlare di questa interpretazione della saga in varie interviste [5] [6].

Per riassumere l’eredità di Matrix, è interessante notare come l’opera sia stata fatta propria da gruppi sociali agli antipodi.

Da una parte la comunità queer, dall’altra la destra americana, specialmente alcuni dei gruppi più estremisti, che si è appropriata del concetto di “red pill”, diventato meme nel corso degli anni.

Del resto, era impossibile che andasse altrimenti, dal momento che Matrix è per eccellenza il film che rappresenta la fragilità del concetto di realtà, contrapposto al terrore della finzione.

Matrix, uscì nel 1999, al culmine di tutta una serie di riflessioni riguardanti la progressiva perdita della certezza di cosa sia reale, acuita dal prendere piede delle tecnologie digitali.

Infatti, a differenza di come è stato spesso interpretato, ovvero come un’opera rivoluzionaria che dava nuova linfa al genere fantascientifico, è più sensato intendere Matrix come un punto di arrivo di riflessioni le cui radici sono da identificare molto prima del film delle sorelle Wachowski.

La forza di Matrix è stata quella di intercettare questi timori e queste riflessioni e di metterle poi in scena fondendo tutti i punti di riferimento delle registe: il cyberpunk, il neo-noir hongkonghese (erano gli anni delle incursioni hollywoodiane di John Woo, Ringo Lam, Tsui Hark), il wuxia (nel 2000 sarebbe uscito La tigre e il dragone di Ang Lee), l’animazione giapponese, in particolare quella fantascientifica, la cui palese ispirazione verrà poi confermata da The Animatrix.

Le Wachowski hanno tratto ispirazione dai classici della fantascienza occidentale e orientale: da Terminator a Blade Runner, passando per Atto di Forza. Da Ghost in the Shell a Serial Experiments Lain.

Ci si può spingere più indietro, scomodando il capostipite della fantascienza moderna, 2001 Odissea nello Spazio, che già aveva detto tutto sul rapporto tra uomo e macchina, o il film per la televisione Il mondo sul filo di Rainer Fassbinder, a sua volta tratto dal romanzo Simulacron 3 del 1964, che ispirò poi anche Il tredicesimo piano, film del 1999 sulle realtà virtuali, che ebbe però meno fortuna di Matrix.

Se poi si considera la letteratura fantascientifica si perde il conto, su tutti si possono citare Philip K. Dick, verso il quale tutta la fantascienza degli ultimi 60 anni è debitrice, e William Gibson, il padre del cyberpunk.

Cosa dire poi delle riflessioni filosofiche messe in scena magistralmente dalle Wachowski?

Anche in questo caso, i punti di riferimento vengono messi in chiaro da subito quando, nella prima scena in cui compare Neo, viene mostrato il libro Simulacra and Simulation di Baudrillard, in cui Neo, ancora Thomas Anderson, nasconde dei dischi.

Si tratta di uno storico saggio del filosofo francese, incentrato proprio sul rapporto tra realtà e Simulacro.

Come per i riferimenti cinematografici, si può andare molto più indietro nella storia della filosofia, dall’oltre-uomo nietzschiano, non a caso centrale anche in 2001 Odissea nello spazio, al velo di Maya di Schopenhauer, fino a giungere al mito della caverna di Platone, con il quale si torna addirittura al IV secolo A.C.

Ci si può spingere anche oltre, andando riscoprire la storia delle tecnologie e degli effetti impiegati nella realizzazione del film, dal morphing [7], già ampiamente affermatosi con Terminator 2  [8] o il bullet time, espressione coniata proprio con Matrix per identificare quelle scene in cui tutto si muove al rallentatore ma la camera si muove a velocità normale [9].

Il bullet time, che vede l’impiego di più macchine da presa contemporaneamente, rimanda a tutta una serie di tecniche impiegate nel corso della storia del cinema e dell’animazione, che ci riportano fino al pre-cinema, con gli studi di Muybridge sui movimenti dei cavalli [10], e in seguito, ancora una volta, all’animazione giapponese, con esempi come Speed Racer [11](adattato per il cinema proprio dalle Wachowski), o ai ralenti di Sam Peckinpah [12], poi ampiamente utilizzati dalla Nuova Hollywood e in seguito dal neo-noir hongkonghese.

Tutto questo è Matrix, un insieme di idee, riflessioni, riferimenti artistici e tecnologie che affondano le radici molto indietro nel tempo.

Tutto ciò in un periodo, come già detto, in cui le nuove tecnologie digitali stavano assumendo un ruolo sempre più centrale, in tutti gli ambiti. Anni in cui Internet stava prendendo piede e vi si riponeva molta fiducia, con vari movimenti, ad esempio quello Cypherpunk [13], che lo vedevano come una delle chiavi per il cambiamento sociale e politico.

Tutti cambiamenti, questi, accolti con entusiasmo ma anche molta paura, rinnovando gli interrogativi filosofici degli autori citati.

Non a caso, tra la metà degli anni ’90 e i primi 2000 si moltiplicarono i film incentrati sulle realtà virtuali e sul dualismo realtà-finzione. Qui la lista si fa davvero infinita: Il tredicesimo piano, eXistenZ, Il tagliaerbe, Johnny Mnemonic, The Thruman Show, Virtuosity, Dark City, Apri gli occhi e via dicendo.

Film più o meno celebri, nessuno dei quali però è riuscito ad eguagliare il successo riscosso da Matrix, un’opera che ha saputo cogliere stimoli sviluppatisi nel corso di decenni, secoli o addirittura millenni e amalgamarli alla perfezione in un collage postmoderno, un’opera che è entrata di diritto nell’immaginario collettivo.

Matrix Resurrections: la distruzione di una saga cult

Fatta questa breve analisi di Matrix, arriviamo finalmente a Matrix Resurrections, un caso più unico che raro di distruzione di una saga, di annientamento totale dell’eredità lasciata dal capostipite.

Dopo anni in cui le sorelle Wachowski si sono dette contrarie a qualsiasi tentativo di rimettere mano a Matrix, Lana ha cambiato idea in seguito alla scomparsa dei genitori.

Il lutto l’ha portata a ritornare ai due personaggi a cui era maggiormente legata, Neo e Trinity, e a scrivere questa nuova storia, riportandoli in vita.

Dal 1999 il mondo è cambiato molto e Matrix è riuscito a diventare sempre più attuale, acquistando ancora più senso in relazione a come si sono evolute la tecnologia e la nostra società nel corso di questi due decenni.

Rimettere mano a un’opera così importante non era affatto semplice ma gli spunti offerti dai due decenni che ci separano dal 1999 sono innumerevoli e ben si prestano all’universo distopico e cyberpunk della saga.

Dalla fine della trilogia non è cambiato solo il mondo però, sono cambiate anche le sorelle Wachowski. In primis per via della transizione a cui ho già accennato. In secondo luogo, perché è mutata la loro idea di cinema (e non solo, considerata l’incursione nella serialità televisiva con Sense8), probabilmente anche l’idea del mondo.

Con il passare del tempo, l’attrazione per il mondo orientale, che è sempre stata presente nel loro cinema, è mutata in uno spiritualismo new age tipicamente occidentale, esploso da Cloud Atlas in poi.

Va detto, infatti, che il loro percorso si è sviluppato molto coerentemente negli ultimi dieci anni, con Jupiter Ascending e soprattutto con Sense8 che, senza dubbio, è l’opera più vicina a Cloud Atlas.

Una deriva new age che in realtà era intuibile già dallo stesso Matrix e che va a braccetto con la volontà di realizzare una sorta di world-cinema, il doppio cinematografico della world-music. Un cinema multiculturale, multietnico, queer, un cinema inclusivo che, anche in questo caso, è rintracciabile anche in Matrix e che, negli ultimi anni, sta prendendo piede a Hollywood, con casi come Eternals di Chloe Zhao.

Lana parte dal lutto dei suoi genitori e cerca di incanalare la sua sofferenza in Matrix Resurrections, trovando conforto in due personaggi che è come se fossero degli amici.

Il mondo sembra essere cambiato molto anche per loro. Neo non è più l’eletto ma un programmatore di videogiochi, creatore della trilogia di videogiochi intitolata Matrix, ispirata ai suoi sogni e alle sue visioni, forse ricordi di una vita precedente, ora al lavoro sul quarto capitolo della saga.

Trinity è diventata Tiffany, appassionata di moto, madre di due figli, sposata con Chad (interpretato proprio da Chad Stahelski, regista di John Wick e controfigura di Keanu Reeves nella trilogia di Matrix).

Neo non è più un hacker in cerca della realtà, ma un borghese di mezza età. Va in palestra per tenersi in forma, beve ed è seguito da uno psicologo che lo imbottisce di pillole blu e continua a ricordargli che le sue visioni sono esclusivamente frutto della sua immaginazione.

Questo è lo spunto da cui inizia Matrix Resurrections, oggetto cinematografico curioso e unico, per la sua capacità autodistruttiva di fare a pezzi e sotterrare (si spera definitivamente) una saga ormai chiusa da anni.

Il quarto capitolo di Matrix, infatti, è ben lontano dal classico reboot/sequel hollywoodiano che punta a osare il meno possibile e spinge il pedale sull’effetto nostalgia.

Lana cerca di intraprendere una strada diversa, dividendo il film in due atti principali. Un primo atto totalmente metacinematografico, in cui si riflette sulla difficoltà, l’impossibilità anzi, di realizzare un sequel di Matrix degno di questo nome, e un secondo atto in cui Neo cerca di risvegliare la sua amata Trinity.

La riflessione metacinematografica si sviluppa principalmente in chiave ironica, con l’ironia tipica delle Wachowski post Matrix, che stravolge il tono cupo, serio ed epico della trilogia originale, portando questo quarto film ad essere molto più vicino agli ultimi lavori delle registe, come Sense8, non a caso la sceneggiatura di questo quarto capitolo è stata scritta da Lana in collaborazione con Aleksandar Hemon e David Mitchell, autore di Cloud Atlas e collaboratore in Sense8.

Viene stravolta anche l’inconfondibile estetica di Matrix. I colori freddi, virati pesantemente verso il verde (il verde delle scritte dei primi monitor), vengono rimpiazzati da una color correction brillante, da una palette di colori molto più ampia e satura che, nelle intenzioni della regista e del direttore della fotografia Daniele Massaccesi, era volta a restituire i progressi fatti dalle tecnologie digitali, dando vita a una realtà virtuale iper-realistica [14].

Paradossalmente, il digitale spinto e i colori brillanti, risultano invece molto meno verosimili, oltre a tradire totalmente l’identità estetica di Matrix e a rendere questo nuovo capitolo anonimo e indistinguibile da un qualsiasi altro prodotto.

Non è impossibile osare, non limitarsi a una copia carbone, senza tradire e svilire il modello originale. Si pensi, ad esempio, allo splendido lavoro fatto da Denis Villeneuve con Blade Runner 2049.

In questo disastroso Matrix Resurrections invece, Lana sembra voler decostruire la mitologia di Matrix, minuto dopo minuto, scena dopo scena, tra la pesantezza di una metacinematografia sterile e portata all’eccesso e l’alleggerimento dei toni dovuto a una comicità totalmente fuori luogo, a tratti demenziale, che sembra uscita più da un film Marvel che da un seguito di Matrix.

Su tutte, vanno citate due scene.

La prima è quella in cui il team di creativi discute su come affrontare il quarto capitolo di Matrix, scena di una demenzialità inaudita, in cui, per altro, si fa esplicito riferimento alle interpretazioni queer di cui si è parlato precedentemente. Il team dei creativi viene poi ripreso anche nella scena post-credits (che fa il verso alla Marvel) in cui viene inferto il colpo di grazia alla credibilità e alla serietà della saga.

La seconda è quella in cui Neo cerca di volare, limitandosi a fare un saltino con tanto di pancia scoperta. Qui si raggiunge la totale decostruzione di un mito, che può ricordare il Thor obeso della Marvel. Si tratta sicuramente di una scelta voluta da parte di Lana ma porta a chiedersi quale sia, realmente, lo scopo di questo film.

È una dimostrazione del fatto che non si possa girare un seguito di Matrix? È tutta una presa in giro, una grande provocazione? Oppure Lana e compagnia hanno realmente creduto che questo fosse un seguito dignitoso, un film dignitoso.

Questa sicuramente è una domanda che resta aperta, anche se la risposta più plausibile sembra, incredibilmente, la seconda.

Nonostante il film non sia credibile neanche per un secondo e risulti finto e privo d’interesse quasi da subito, Lana sembra comunque cercare di dire qualcosa.

Il tema della transizione è sicuramente molto più esplicito rispetto alla trilogia originale, non solo perché viene citato direttamente, ma anche perché ritorna di continuo l’idea di essere intrappolati in una vita e in un corpo che non si sentono propri.

Neo è intrappolato dentro al corpo di un uomo anziano, che si vede nei riflessi degli specchi, e che è ciò che vedono le altre persone.

Allo stesso modo Trinity è intrappolata nel corpo di un’altra donna, oltre che in una vita convenzionale (con il marito Chad e i figli) che continua a vivere pur non sentendo propria.

Vi è poi l’idea più generica di essere intrappolati all’interno di una realtà fittizia, in cui non ci si sente mai pienamente a proprio agio.

Non mancano poi le derive new age, culminanti nella più banale delle soluzioni che, nella mente della regista, dovrebbe spiegare tutte le cose: un po’ come per il Nolan di Interstellar, l’amore è una forza che può tutto, anche mandare in mille pezzi i piani di dominio delle macchine.

La chiave, infatti, non è Neo ma è l’unione tra Neo e Trinity, una coppia inscindibile, che insieme può salvare gli uomini dalle macchine ma che allo stesso tempo, genera abbastanza energia da permettere alle macchine di alimentarsi e di creare la nuova versione di Matrix, a patto che i due siano vicini ma separati.

Questo, si scopre, è il motivo per cui sono stati resuscitati dall’analista, interpretato da un Neil Patrick Harris mai così irritante e poco credibile, l’architetto di questa nuova realtà virtuale.

Ovviamente, per essere più in linea coi tempi, viene ribaltato il rapporto tra Neo e Trinity. Certo, è Neo il cavaliere che deve salvare la bella addormentata, ma sul finale sembra quasi che i ruoli si scambino e che i poteri di Neo, ora appartengano a Trinity.

Nonostante l’intento metacinematografico “colto” e critico nei confronti della natura stessa di questa disastrosa operazione, è comunque immancabile la caduta nel fan service più becero e nell’effetto nostalgia che qui, con la scusa della metacinematografia, raggiunge vette raramente esplorate.

Vengono letteralmente rifatte le scene iconiche, addirittura proiettate in uno schermo cinematografico. Tornano anche personaggi dei film precedenti, nei loro corpi, come nel caso del Merovingio, o in corpi nuovi, come nel caso dell’agente Smith e di Morpheus, altro rimando a quest’idea di transizione, scambi di corpi e identità.

Manco a dirlo, la profondità e l’ambiguità del primo film, che poi era andata via via perdendosi con i due seguiti, qua viene completamente spazzata via da spiegoni nolaniani della peggior specie, due in particolare, uno dell’analista e uno di Sati, la bambina che compariva nella stazione della metropolitana-purgatorio di Matrix Revolutions.

I concetti vengono ribaditi, esplicitati fino alla nausea e soprattutto vengono appiattiti e privati del fascino dell’originale, anziché cercare di aggiornare le riflessioni ai nostri tempi.

Un disastro totale che si chiude con un finale ridicolo che, ovviamente, apre a nuove possibilità, con Trinity e Neo di nuovo insieme, pronti a riplasmare Matrix, che spiccano il volo sulle note di una cover [15], anch’essa terribile, di Wake Up dei Rage Against the Machine, canzone che chiudeva il film del 1999.

Un suicidio artistico in piena regola, come forse non se ne sono mai visti prima, che segue i flop al botteghino che le due sorelle hanno inanellato con tutti i progetti successivi ai primi tre Matrix.

Restano molte domande come, ad esempio, come è possibile che nessuno si sia accorto del disastro che è questo film, del clamoroso sbaglio che stava venendo fatto, da tutti i punti di vista, perché, con buona probabilità, Matrix Resurrections non andrà bene al botteghino, oltre a scontentare i fan e più in generale il pubblico.

Resterà impresso come un caso di autosabotaggio da studiare, come una dichiarazione del fatto che sia impossibile realizzare un seguito di Matrix.

A pieno titolo, il peggior film dell’anno.

Scritto da: Tomàs Daniel Avila Visintin

Qui potete vedere la versione video di questo articolo: